Vittorio Zincone, Sette 7/6/2013, 7 giugno 2013
«HO CORTEGGIATO BENIGNI. MA ORA SOGNO DI AVERE CROZZA COME TESTIMONIAL»
[Marco Testa]
Preferisce la follia alla razionalità. E ai suoi collaboratori chiede una visione non convenzionale del mondo. Marco Testa, 62 anni, è il patron della Armando Testa, l’agenzia pubblicitaria creata dal padre nel 1956. Da decenni incide nell’immaginario degli italiani a colpi di slogan indelebili: «Glielo ripongo nella vaschetta?», «Una telefonata allunga la vita», «M’ama o non m’ama?», «Ma chi sono io, Babbo Natale?». Lo incontro nella sede di Torino, un gigantesco parallelepipedo granata. All’ingresso ci accolgono gli enormi pupazzi inventati da Armando: Papalla, Carmencita e Caballero. L’ufficio brulica di venditori, copywriter, montatori, smanettoni digitali e twittaroli, grafici e informatici. Testa sentenzia: «Quale che sia il medium, alla base del nostro mestiere ci sono le idee e la creatività». Parla lentamente, con lieve cadenza piemontese. Quando gli chiedo che cosa debba fare un giovane per venire a lavorare da lui, mi racconta di un’assunzione inusuale: «Venne da me un ragazzo che per anni aveva cambiato gli spioncini alle porte degli italiani. Quell’esperienza lo aveva immerso nell’Italia reale. Aveva una creatività decisamente non stereotipata. Lo reclutai subito».
Stereotipi. In Italia se non si piazza una donna seminuda in uno spot non si è contenti.
«A noi è capitata una polemica su questo argomento un paio di anni fa. In linea di massima credo che usare l’ammiccamento sessuale sia il sintomo di mancanza di idee».
Donne inginocchiate, donne al guinzaglio…
«Mezzucci per farsi notare».
Per festeggiare l’8 marzo una nota casa automobilistica ha annunciato che avrebbe regalato alle donne il sistema anti-urto. Il sottinteso è uno stereotipo: donne al volante pericolo costante.
«Volevano fare gli spiritosi».
Molte donne non hanno apprezzato.
«Immagino. Ma c’è da dire che spesso si esagera anche con le polemiche. Si attaccano le pubblicità perché sono molto note e danno notorietà».
Si attaccano le pubblicità anche perché ogni tanto si vedono pure ragazzine in abiti succinti… Un eccesso di bacchettonismo?
«Ci sono delle leggi molto rigide per la tutela dei minori. Detto ciò io sono contro le campagne shock. Alla lunga non fanno bene ai prodotti. Molto meglio farsi notare con una creatività politically correct. Non esprimo giudizi morali, lo dico da un punto di vista professionale, di convenienza. Puntare sul dolore per vendere una maglietta danneggia il marchio».
Sta parlando dello “stile Toscani”?
«Le campagne toscaneggianti rischiano di produrre un rifiuto. Sono stato per un po’ presidente di Pubblicità Progresso e ho imparato che, per esempio, parlare in modo troppo traumatico di una malattia, invece di sensibilizzare, allontana le persone».
C’è chi sostiene che anche un testimonial troppo forte distragga dal prodotto.
«Non condivido. Se si racconta una buona storia, il testimonial diventa un elemento di forza».
Chi è oggi il testimonial ideale?
«Io ho corteggiato per anni Roberto Benigni, ma non ha mai ceduto».
In alternativa a Benigni?
«Maurizio Crozza. Ma a chi lavora con me ripeto che prima vengono sempre e comunque le idee».
Sono tanti i ragazzi che bussano alla sua porta?
«Abbiamo appena concluso l’iniziativa “porte aperte all’Armando Testa”. Hanno partecipato centinaia di persone. Molti verranno presi in prova».
Immagino che lei sia cresciuto tra pupazzi e jingle.
«In realtà sono cresciuto nel Collegio Carlo Alberto, a Moncalieri. Vedevo mio padre nei weekend, mi portava in giro per gallerie d’arte».
Lei era adolescente nel Sessantotto.
«Tra le pareti del collegio si respirava poco quel clima. Fatta la maturità venni catapultato a New York».
A fare che cosa?
«Di giorno lavoravo per un’agenzia pubblicitaria e di sera seguivo i corsi della New York University. Volevo diventare giornalista. Mi attirava l’idea di restare in America».
Perché non ci restò?
«Mia madre mi venne a trovare e mi fece capire che dovevo impegnarmi nell’azienda di famiglia. Cominciai a fare il copywriter, scrivevo testi».
Quali clienti seguiva?
«Soprattutto la Peroni. A metà anni Settanta mi misi in proprio: creai un’agenzia che si chiamava l’Altra. Piuttosto che tornare indietro mi sarei mangiato un gatto».
E invece…
«Invece all’inizio degli anni Ottanta rientrai alla Armando Testa come direttore della sede milanese».
Ricorda la sua prima campagna pubblicitaria?
«Quella di un’auto. Eravamo in piena crisi petrolifera e per rendere l’idea che con quella macchina si risparmiava benzina disegnai un arabo e ci feci stampare sopra una grossa X. Quel manifesto fece parecchio scandalo. In quegli anni poi, introducemmo anche le prime prese in giro dei vecchi Caroselli: per un marchio di caramelle filmammo un bambino che si arrampicava su un armadio gridando “sempre più in alto”, come Mike per la sua grappa. Fu l’inizio di un filone ironico che poi proseguì con Massimo Lopez e la telefonata che allunga la vita, passando per molti altri spot, fino ad arrivare al caffè comico bevuto in paradiso. Quest’ultima, circa quindici anni fa, fu una scelta veramente molto coraggiosa».
Esagerato.
«Sorseggiare caffè in Paradiso ora sembra normale. Ma non tutti i clienti sono disposti a rischiare di associare il loro prodotto al concetto di morte. Gli studi e le ricerche dicevano che questo rischio c’era. Ma se si seguissero razionalmente solo gli studi, il nostro mestiere a che cosa si ridurrebbe? Io voglio che ci sia sempre un po’ di follia. La creatività è anche questo: saper usare le ricerche per conoscere che cosa serve al prodotto e per tutelarlo, ma poi andare oltre».
Lei ha mai fatto comunicazione politica?
«In America lavoravo per una agenzia che seguiva anche i candidati al Congresso. Quando rientrai a Torino pensai che quel modello fosse esportabile in Italia. Curai per il Psi delle interviste/spot di Gianni Minoli a Bettino Craxi».
Lei era socialista?
«Non ho mai avuto targhe. E dopo quell’unica esperienza non feci più nulla con i politici. Forse anche per questo la mia agenzia non ha nessun appalto con le tante aziende partecipate dallo Stato. Certo, ora ogni volta che c’è una campagna elettorale mi sorprendo a immaginare che cosa avrei fatto io al posto degli altri. I politici oggi sono davvero malconsigliati».
A chi si riferisce?
«Un po’ a tutti. Mi pare che i consulenti per la comunicazione sappiano davvero poco. Nel migliore dei casi vengono presi all’estero. I risultati sono comunque scarsi».
Abbasso l’esterofilia?
«Ma no. Il problema è che magari un consulente americano ti spinge a parlare alla pancia del Paese, senza riflettere sul fatto che ogni Paese ha la sua pancia. Quest’anno stavo per prendere carta e penna per inviare qualche suggerimento gratuito».
Che cosa direbbe oggi a un politico?
«Gli spiegherei che le grandi campagne nascono da una cultura: dalla capacità di intercettare quello che gli italiani respirano».
Mi fa un esempio?
«Quando Berlusconi va in tivvù e si mette a spolverare la sedia di Travaglio, si trasforma in Totò. Attinge a qualcosa che magari non sappiamo di conoscere, ma che sta nelle nostre viscere».
Berlusconi usò un nome “viscerale” anche per il suo partito, Forza Italia, con cui vinse le elezioni nel 1994. All’epoca qualcuno ipotizzò che la Armando Testa nel 1993 avesse “testato” quel nome attraverso una capillare campagna di cartelloni con su scritto Fozza Itaia accanto al volto di un bambino.
«Questa è davvero una leggenda. Vuole sapere come andò davvero?».
Certo.
«C’era la crisi. Il settore dei cartelloni pubblicitari arrancava. Io, per aiutarli, organizzai gratuitamente una campagna per far capire agli inserzionisti la potenza della cartellonistica. L’autore dello slogan Fozza Itaia era un creativo, che ebbe pure un po’ di problemi con il padre militante di Rifondazione Comunista, perché anche lui era convinto che il figlio si fosse prestato a una manovra berlusconiana».
Lei ha mai pensato che Berlusconi si sia ispirato alla sua campagna?
«Uhm… no».
Sempre nel 1993 lei rilasciò un’intervista polemica su Beppe Grillo, colpevole di aver attaccato la pubblicità e il consumismo. Ora Grillo è il leader di uno dei principali partiti nazionali, anche grazie alla sua capacità di comunicare.
«Grillo fa parte di un gruppo di genovesi talentuosi che conosco bene. È un attore straordinario e un intrattenitore formidabile. Ma la capacità comunicativa del M5S mi pare supervalutata. Brillano perché sono gli unici a usare la comunicazione digitale. Gli altri partiti sono piantati al secolo scorso».
Lei ha mai fatto politica?
«No».
Era a Torino negli anni durissimi della contestazione.
«Lavoravo. Al massimo ho dato una mano ad alcuni ragazzi di Lotta Continua disoccupati».
Come?
«Facendogli fare qualche lavoretto. Qualcuno è finito pure dentro il pupazzo Pippo, l’ippopotamo dei pannolini».
A cena col nemico?
«David Droga».
E chi sarebbe?
«Un creativo straordinario. Ha appena realizzato uno spot che invidio molto».
Di che cosa si tratta?
«Un video per una banca che mette sul mercato una polizza assicurativa. Lo slogan è “Il primo giorno della tua nuova vita”. Coinvolgente, emotivo e in grado di raccontare una storia comprensibile a tutti».
Lei ha un clan di amici?
«Faccio un solo nome: Pietro, che è editore».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Tornare dagli Stati Uniti e cominciare a lavorare con mio padre».
L’errore più grande che ha fatto?
«Non seguire l’istinto di aprire prima una società per il digitale».
Che cosa guarda in tv?
«Drammaticamente tutto. Non faccio selezione qualitativa».
Cambia canale quando c’è un film e fa zapping a caccia di spot?
«Eheh. No, no. Sono un grande appassionato di cinema».
Il film preferito?
«C’era una volta in America di Sergio Leone».
Il libro?
«Ho letto recentemente Inferno di Dan Brown e mi è venuta voglia di rileggere Dante».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«Aspetti. Mia moglie mi ha preparato una cartellina con un po’ di materiale per queste domande…».
È l’articolo che descrive il Tricolore.
«Bello. La nostra bandiera è stupenda».
Le capita spesso di usarla per gli spot e per le campagne pubblicitarie?
«No. Anche perché in Italia la bandiera non ha lo stesso peso patriottico di altri Paesi. E questo è anche un bene. Siamo un popolo che non esagera nel dare importanza ai simboli. Ci mettiamo sempre un po’ di ironia».
Lei usa Twitter?
«No, per scelta. Non avrei cinguettato abbastanza da giustificare la mia presenza».
Sa quanto costa un pacco di pannolini?
«No».
Fa la spesa?
«No. Ma nei supermercati ci vado spesso».
A fare che cosa?
«Osservo la gente. Guardo le persone che si aggirano tra gli scaffali. Seguo gli insegnamenti di mio padre».
Quali insegnamenti?
«Con lui ci sedevamo al bar e cominciavamo a immaginare che mestiere facevano quelli che passavano lì davanti, che macchina avevano... Studiare la gente è la base del mio mestiere».
Vittorio Zincone