Danilo Taino, Sette 7/6/2013, 7 giugno 2013
LA LOTTA DEI GOVERNI AL SEGRETO BANCARIO VALE 21.000 MILIARDI
Chi ha detto che il denaro non dorme mai? Nei paradisi fiscali ha sempre fatto sonni tranquilli. Non che riposi davvero: spesso si muove da un’isola caraibica all’altra, dal Lussemburgo a Hong Kong per ogni genere di operazioni. Ma sempre coperto, invisibile, in apparenza innocuo e sonnolento: che stia in una banca con vista spiaggia o in un ufficio di Zurigo, vecchie boiserie e poltrone in pelle vista pioggia. Denaro serio e solido, si è a lungo usato dire di questi capitali senza nome. Tutto però cambia: i tempi in cui il circuito privilegiato delle banche private si intrecciava con il jet-set di panfili e casinò sembrano vicini alla fine: per il segreto bancario, le campane a morto suonano in continuazione, in questi giorni.
«È un relitto del passato», sostiene il funzionario numero uno dell’Unione europea in fatto di tasse, Algirdas Semeta. «Presto vedremo la morte del segreto bancario in tutto il mondo». Stesso entusiasmo un po’ in tutti i governi che, assediati dai deficit e dai debiti, negli ultimi anni sono partiti all’assalto dei paradisi fiscali nei quali si nascondono migliaia di investitori e un capitale non dichiarato, invisibile alle autorità, di 21mila miliardi di dollari, più del Prodotto lordo degli Stati Uniti (lo calcola il Tax Justice Network, una coalizione di ricercatori e attivisti: la cifra va presa con cautela, trattandosi di denaro nascosto). Non è detto che la previsione di Semeta si realizzi. Certo, la guerra è in corso. Molti Stati occidentali, guidati da Washington, l’hanno lanciata nel 2009. E raccoglie consensi quasi unanimi.
Non è però sempre stato così. Nell’ultimo giorno della sua presidenza, il 20 gennaio 2001, Bill Clinton emise un clamoroso perdono a Marc Rich, uno dei più straordinari commercianti internazionali di materie prime, fondatore del gigante del settore Glencore, uomo vicino all’ayatollah Khomeini. In precedenza, Rich era stato condannato per evasione fiscale (e affari illegali con l’Iran) negli Stati Uniti. Ciò nonostante, Clinton lo perdonò: se ne discusse parecchio ma lo scandalo fu piuttosto limitato. Qualcosa del genere oggi provocherebbe onde altissime in tutto il mondo. Non allora, altri tempi. E, andando ancora più a ritroso, il segreto bancario fu addirittura uno strumento di opposizione alle tirannie, difese patrimoni dalla confisca ingiustificata, salvò persone e famiglie.
La protezione dell’identità del cliente nasce in fondo già nel Rinascimento, quando il rapporto tra banchieri e commercianti era un affare privato, spesso organizzato in modo che il principe non ci potesse mettere becco. Le stesse banche private di Ginevra hanno la loro origine nella persecuzione degli ugonotti in Francia: fuggiti nel Seicento nella vicina città neutrale, molti uomini d’affari calvinisti misero su bottega, innanzitutto per proteggere il denaro di amici e parenti. Nacque quel private banking che ancora oggi è uno dei grandi business della Confederazione. Ed è sempre in Svizzera che il segreto bancario viene istituzionalizzato nei tempi moderni: ancora una volta per difendersi da un tiranno.
Nel 1934 – il nazismo da poco al potere in Germania – un funzionario della appena formata Gestapo, Georg Hannes Thomae, fu spedito a Zurigo da Reinhard Heydrich per cercare e recuperare ogni marco che fosse stato depositato nei forzieri delle sue banche. Grazie a un po’ di corruzione e a molti trucchi, Thomae ebbe subito successo. Scoprì parecchi correntisti tedeschi: se erano dei notabili o dei buoni borghesi venivano convocati dalla Gestapo e “convinti” a fare rientrare il capitale, dopo avere pagato una multa; se erano ebrei, il patrimonio veniva spesso sequestrato e non mancarono casi di tortura e di omicidio. Per scoprire i conti nascosti, Thomae andava in una banca nella quale sospettava un tedesco avesse un conto, diceva di volergli fare un versamento e se la banca acconsentiva aveva fatto centro e procedeva.
La Svizzera capì presto cosa stesse accadendo. Nello stesso 1934, approvò la prima legislazione sul segreto bancario e introdusse i conti numerati, anche sull’onda di uno scandalo scoppiato in Francia che vide accusati di esportazione di capitali una serie di celebrità, tra le quali i fratelli Peugeot e il famoso profumiere e politico François Coty. E l’Associazione bancaria elvetica decise di non dare più informazioni sui conti nei casi in cui non fossero più che accertate l’identità del richiedente e la sua buona fede. Pratica controversa, che contribuì a creare dopo la caduta del nazismo il caso del cosiddetto “oro degli ebrei”, per il quale le banche svizzere non davano informazioni anche a rischio di venire accusate di volersi appropriare dei patrimoni delle vittime di Hitler. Ma anche pratica che permise a numerose famiglie, nel pieno della tragedia nazista, di mettere al riparo beni e patrimoni essenziali per la sopravvivenza.
Evasione e riciclaggio. Attenzione allora. Anche il segreto bancario e la lotta contro di esso vanno relativizzati: a seconda delle circostanze cambiano significato. Il desiderio di nascondere il proprio denaro può essere nato dall’avidità, dal desiderio di evadere le tasse, ma può anche essere stato motivato dalla sfiducia o dalla paura del potere.
Oggi, le cose dietro al segreto bancario sono forse meno drammatiche. Ma hanno una portata enorme. Prima di tutto, c’è l’evasione fiscale che quasi sempre si accompagna alla segretezza. Ma c’è anche la grande onda di riciclaggio, che nell’oscurità del segreto trova il modo di ripulire soldi sporchi e metterli in circolazione come nuovi.
A dire il vero, la ragione per la quale i governi hanno lanciato la guerra contro il segreto bancario e i centri offshore ha soprattutto a che fare con lo stress delle finanze pubbliche dei Paesi occidentali. «Nemmeno un euro dovrà più sfuggire», ebbe a dire poco dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008 Peer Steinbrück, allora ministro delle Finanze tedesco. E, in effetti, l’attivismo di governi e polizie ha aperto parecchie finestre. Negli ultimi anni, gli scandali da patrimoni nascosti sono diventati quasi quotidiani. Uno degli ultimi è quello del presidente del Bayern calcio Uli Höness, sotto inchiesta (per l’imbarazzo dell’amica Angela Merkel) a causa di un conto in Svizzera. Recentissimi quelli che hanno messo in difficoltà il presidente francese François Hollande: hanno coinvolto il capo della sua campagna elettorale Jean-Jacques Augier (affezionato alle Isole Cayman) e il ministro (dimesso) del Bilancio Jérôme Cahuzac (Svizzera). Segni che i conti protetti e numerati attraggono a sinistra come a destra.
Gli informatori. E in questo clima di caccia al segreto è anche nata e cresciuta la figura del “whistleblower”, il privato cittadino che fischia per avvertire che in un’organizzazione qualcosa non funziona. Hervé Falciani, un ingegnere italo-francese che lavorava in Svizzera alla Hong Kong and Shanghai Bank, ha passato alle autorità francesi, spagnole, italiane e britanniche nomi e informazioni su una frode fiscale di 200 miliardi di euro. Berna voleva processarlo, ma i tribunali della Spagna, dove si è rifugiato, hanno deciso pochi giorni fa di non estradarlo. Il governo tedesco ha pagato per entrare in possesso di un dischetto rubato che conteneva i nomi di evasori fiscali, sempre in Svizzera. In Grecia, dove l’evasione trionfa, è stato un caso politico quello della Lista Lagarde, dal nome della presidente del Fondo monetario internazionale che l’ha fatta circolare: conteneva i nomi di 1.991 ricchi greci con conti in Svizzera (il giornalista che la pubblicò, Kostas Vaxevanis, fu arrestato per una notte). Il caso più eclatante di whistleblower è quello di Bradley Birkenfeld, un ex dipendente americano della banca svizzera Ubs che ha collaborato con il governo di Washington e ha fatto scoprire quattromila conti segreti di clienti. Ubs ha accettato di pagare 780 milioni di dollari al fisco Usa e questo ne ha girati, a ricompensa, 104 a Birkenfeld. La lotta al conto coperto è insomma senza quartiere.
Il risultato è che la settimana scorsa il governo svizzero ha scritto una legge (verrà votata in estate) che permette alle banche di fornire informazioni sui loro clienti direttamente alle autorità americane (ma solo per un anno, poi la finestra si chiuderà). L’Unione europea ha lanciato un’offensiva a tutto campo che ha convinto il tanto stimato ma molto segreto Lussemburgo di Jean-Claude Juncker a legiferare per allentare la protezione delle identità dei proprietari delle migliaia di miliardi che risiedono nel granducato. L’Austria, altro paradiso nascosto, ha promesso di fare qualcosa entro l’anno. E persino il Liechtenstein del principe Hans-Adam II sta un po’ allentando la segretezza. Non è che non ci saranno reazioni. Jean Jacques Rommes, numero uno dell’Associazione dei banchieri del Lussemburgo, ha detto che si stanno trasformando le banche nella lunga mano delle autorità fiscali e che la trasparenza «non è una virtù ma una prostituta politica che può servire sia per il bene sia per il male». Sta di fatto, però, che i governi hanno azzannato la preda: con il bisogno di denaro che hanno, non la lasceranno presto.
@danilotaino