Luigi Offeddu, Sette 7/6/2013, 7 giugno 2013
STOCCOLMA BRUCIA (INSIEME AL SUO MODELLO)
Questa non è una fiaba. E la Svezia non è il Paese delle fiabe: anzi. Pochi giorni fa, verso le 11 del mattino, sulla superstrada fra i boschi nei pressi di Trollhattan, due auto si scontrano per evitare un grande alce disteso sull’asfalto. È una femmina, sta partorendo. Gli automobilisti si trasformano in ostetrici, in pochi minuti il cucciolo tutto bagnato barcolla lì intorno. Ma la madre, spaventata, fugge, sparisce nella foresta. Intanto è arrivata la polizia: prima un’auto, poi due furgoncini carichi di agenti che cominciano a cercare mamma-alce nei boschi. La trovano solo alle sei di sera, e lei riaccoglie il suo piccolo, tornano insieme in libertà. Agenti e automobilisti hanno agito così perché cresciuti nel culto dell’ambiente, della natura. Ma la Svezia, appunto, non è il Paese delle fiabe. Nelle stesse ore, sulla stessa autostrada, passavano altri furgoni della polizia, alcuni blindati, altri con l’idrante sul tettuccio, altri con i musi di cani lupo che si affacciavano da una grata. Correvano verso Husby, periferia di Stoccolma, quartiere di palazzine abitato al 90% da immigrati extracomunitari. E nato sulle ali di un ambizioso progetto governativo di edilizia sociale, il “Million program” che doveva costruire un milione di appartamenti a buon mercato in tutta la Svezia. Ora, la polizia correva là perché da 3 giorni quelle strade erano in preda a misteriosi tumulti: cento auto bruciate in quella sola notte, bande di giovani somali o iracheni armate di ganci da macellaio, bande di “Democratici svedesi”, il partito ultranazionalista di estrema destra, armate di mazze da baseball, intente a pattugliare le strade in una parodia dei “vigilantes” alla Charles Bronson. E in mezzo a tutti lo-
ro, polizia allo sbando, chiaramente impreparata e sorpresa: «Ci chiamano negri, scimmie», «ci lanciano addosso i cani», hanno dichiarato i capi di alcune associazioni musulmane. Scontri anche in altre città. Tutto sarebbe cominciato perché un agente avrebbe sparato a un anziano ubriacone africano che minacciava i passanti, uccidendolo.
Lingue e religioni. Ci sono molte possibili spiegazioni, naturalmente: a Husby, la disoccupazione tocca il 30%, molti immigrati abbandonano i corsi di lingua svedese e così si isolano fra loro, altri, come a Malmoe, forse la città più musulmana d’Europa, si rifugiano in una versione radicale dell’Islam che li spinge verso l’apprendistato del terrorismo.
Tutto vero, forse. E però, non basta a spiegare perché il castello stia crollando: il castello del modello sociale svedese invidiato da tutta l’Europa, il regno del welfare socialdemocratico, la capacità di accogliere e integrare le genti più diverse in fuga da guerre e miseria e magari nemiche fra loro. La capacità, per esempio, di inserire la lingua Romani dei Rom fra le cinque lingue minoritarie ufficialmente riconosciute dallo Stato (Yiddish, Romani, Finlandese, tutti i dialetti dei nomadi lapponi Sami e quelli dell’etnia Meankieli nella valle Torney). Ma anche il desiderio profondo di teorizzare (la pratica è un’altra cosa, ma non solo in Svezia) l’uguaglianza su questa terra, e in tutto: uno dei perni didattici, in vari asili e scuole elementari svedesi dove si insegna l’uguaglianza di genere, sono le favolette dove il buon principe sposa magari un altro principe, o il re lava i piatti mentre la regina guida l’armata. Verso gli immigrati extracomunitari, i loro diritti sociali o culturali, tutto questo avrebbe dovuto essere moltiplicato per mille, e davvero tutto è stato tentato in perfetta buona fede dai vari governi socialdemocratici, permeati anche dalla morale luterana della solidarietà: per decenni, al loro arrivo in Svezia, lo Stato ha garantito agli immigrati scuole, medicine e ospedali gratuiti, corsi di lingua, e molto spesso un’abitazione con una stanza separata per ogni figlio. Non lo faceva solo per idealismo, soprattutto nel caso degli immigrati finnici o scandinavi in genere, facilmente integrabili, che negli anni Cinquanta erano la grande maggioranza: Stoccolma aveva bisogno di allargare la base sociale dei contribuenti, per mantenere in piedi il sistema del welfare. Ma poi, si distraeva. Lo Stato si è distratto, non si riesce a dirlo in un altro modo: i numeri della demografia crescevano, il governo pensava ai suoi principi ideali, e alla fine i numeri hanno vinto. Anche perché, nel frattempo, è arrivata la crisi più grave degli ultimi 100 anni in Europa, e anche a Stoccolma sono comparsi i sussidi di disoccupazione. Finché c’era stato il lavoro sicuro e per tutti, anche l’integrazione era stata più facile: poi, è come se un bel velo abbia cominciato a disfarsi. Uno stesso sogno di ingegneria sociale basato sull’utopia, esteso dalla pianificazione urbana dei quartieri a quella dell’integrazione culturale, dal cemento alle gioie teoriche del buon vicinato, ha cominciato a scricchiolare. E nel frattempo, guardando per aria, la Svezia ha dimenticato di guardarsi allo specchio.
Il più grande fra gli Stati nordici, ma uno dei più piccoli della Ue (non ha mai voluto entrare nel pianeta dell’euro), aveva nel 1570 appena 900mila abitanti, quattro secoli dopo 7,5 milioni, e ne ha oggi 9,5 milioni, dei quali il 19,6%, quasi 2 milioni di persone, sono nati all’estero o sono figli di genitori nati all’estero. Questo dicono le statistiche ufficiali, che per principio non prendono in considerazione l’etnia, la religione, o la razza (meraviglioso, si legge oggi sui blog moderati: «Ma non è anche questo un fare come gli struzzi nascondendo la testa nella sabbia?»; mentre uno dei blog più nazionalisti declama tenere profezie come: «Se continuano ad arrivare tanti musulmani, fra pochi anni un quarto delle nostre donne sarà stato violentato»). L’Eurostat lima un po’ le stime: 1,3 milioni di immigrati, il 14,3% del totale. I musulmani sarebbero 574.000, e avrebbero contribuito in maniera decisiva all’incremento della popolazione (+5,6%) in certe aree, negli ultimi anni. Fra questi, gli iracheni sarebbero 127.860, i turchi 45.085, gli iraniani 65.649, i somali 439.660. I siriani, da soli, sono triplicati (più 5.153) fra il 2011 e il 2012, cioè da quando è iniziata la loro guerra civile. Ma poi ci sono i curdi (60.000). E i serbi (80.000) e i bosniaci (92.000) arrivati negli Anni 90 durante e dopo le guerre balcaniche (non hanno mai posto problemi di integrazione). E ancora gli afgani, i congolesi, i nigeriani e così via. Più molti profughi clandestini. Le statistiche sono (quasi) tutte inaffidabili. Ma poco importano, le differenze fra i numeri: importa che alla fine hanno vinto loro, che tutto è avvenuto molto in fretta, e proprio mentre lo Stato era distratto, forse anche distratto dal suo stesso idealismo.
Economia a doppio binario. Tutto questo lo certificano gli ultimi dati della Commissione Europea. La Svezia, dicono, è ancora un Paese ricco, uno dei più ricchi in Europa. Con un trend ancora positivo, che la tiene lontana dalla “crescita zero”: negli ultimi 3 mesi del 2012 il suo prodotto interno lordo è cresciuto dell’1,5% rispetto all’anno precedente, mentre quello italiano calava del 2,7%, o quello spagnolo dell’1,9%. E l’occupazione, sempre nel 2011- 2012, ha fatto segnare un discreto +0,5%: lavora il 75,6% degli svedesi fra i 15 e i 64 anni (contro il 56,9% degli italiani). Ma se si va un poco più nel profondo, ecco invece l’altra faccia della luna svedese.
Il tasso di disoccupazione generale è all’8%, meglio della media Ue (10,8%) ma peggio, per esempio, della Romania (6,6%) o dell’Austria (4,9%): la Svezia ha la disoccupazione più alta fra tutti i Paesi scandinavi. Quanto a quella giovanile, è al 23,5% (oltre il 30% nelle aree come Husby), mentre in Finlandia è al 19,5% e in Olanda al 10,3%. E ancora: la disoccupazione fra gli svedesi di nascita è un terzo di quella registrata fra gli immigrati: questi ultimi sono il 14-15% della popolazione totale, ma il 35% dei suoi disoccupati. Cioè coloro più facilmente catturati dalla solitudine e dalla segregazione. Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo, la disuguaglianza sta crescendo più rapidamente in Svezia che in qualsiasi altro Paese europeo. Il numero di senzatetto sarebbe quadruplicato. E secondo l’organizzazione Save the children nel 2010 il 12% dei bambini viveva in uno stato di povertà (un dato incerto, vista la tendenza di certe statistiche a concentrarsi proprio sui quartieri più degradati, come Husby).
Negli ultimi due anni, la guerra in Siria, i colpi di Stato e le guerre civili in vari Paesi africani come il Mali, il caos in Afghanistan, i disastri naturali e le tensioni etniche in Bangladesh e Sri Lanka hanno fatto accrescere la pressione immigratoria sulla Svezia come sull’intera Scandinavia. Mentre da Est già preme l’ondata degli immigranti romeni e bulgari, e Rom, in attesa di vedere quei loro Paesi accolti nell’area Schengen e aperti al resto d’Europa, senza più bisogno di visto o passaporto: è un passo atteso, dovuto, e giustificato dai principi comunitari, ma la Germania ha congelato ogni discussione almeno fino al prossimo dicembre. In ogni caso, è già scontato che Stoccolma sarà una delle mete preferite dalla nuova ondata, nel Nord d’Europa.
Gli scenari futuri. Così l’attuale governo di centrodestra guidato da Fredrik Reinfeldt, “rigorista” fedelissimo di Berlino, studia regole più strette per l’ordine pubblico: ma come “prima” non si trattava solo di spiegare ai bambini somali che le lattine delle bibite vanno messe in una pattumiera apposita, “adesso” non si tratta solo di ordine pubblico, di cani-lupo e di idranti. Ma di imparare di nuovo a parlare, a parlarsi. Il governo sta incontrando i capi di tutte le comunità, se non altro c’è una consapevolezza comune: l’anno prossimo, a settembre, vi saranno le nuove elezioni politiche, e gli unici a guadagnare dalle fiamme di Husby potrebbero essere i Democratici svedesi con le loro mazze da baseball.
Luigi Offeddu
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