Sergio Romano, Sette 7/6/2013, 7 giugno 2013
CHE COSA PUÒ INSEGNARE IL PRINCIPE A BERLUSCONI
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Non esiste un solo Machiavelli. Sin dall’anno in cui Il Principe cominciò a circolare in Europa, ve ne sono almeno tre, ciascuno dei quali riflette una diversa lettura delle sue intenzioni. Vi è anzitutto l’uomo spregiudicato e immorale, maligno consigliere di ambiziosi tiranni, “diavolo incarnato”, secondo il detto inglese che in epoca elisabettiana serviva a definire le persone contagiate dai costumi italiani. Vi è poi lo scienziato della politica, una sorta di entomologo che osserva freddamente gli insetti umani, sgonfia i palloncini della retorica, scarta gli orpelli con cui vengono rappresentati, cerca di prevedere i comportamenti delle sue bestiole. E vi è infine il patriota, l’idealista che mette le sue numerose esperienze al servizio di un nobile disegno nazionale, l’uomo che «temprando lo scettro a regnatori/gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/di che lagrime grondi e di che sangue».
I versi del Foscolo sono belli, ma delle tre interpretazioni l’ultima mi sembra la meno convincente. Quando invita Lorenzo de’ Medici alla generosa impresa dell’unificazione italiana, Machiavelli ha appena terminato un trattato in cui ha spiegato che i nemici si debbono “spegnere”, che i popoli sono sciocchi e pericolosi, che le guerre preventive sono utili, che esiste un uso buono della crudeltà, che occorre diffidare dei propri collaboratori, che è meglio colpire duramente all’inizio di un’impresa piuttosto che lasciare ai nemici il tempo di raggrupparsi e reagire, che i profeti disarmati sono inetti e insignificanti, che un principe deve fingersi buono, ma essere sempre pronto a «mutare il contrario». Se queste sono le arti di cui Lorenzo de’ Medici dovrà servirsi per realizzare la sua grande opera, è lecito chiedersi perché gli italiani dovrebbero riunirsi entusiasticamente sotto le sue bandiere.
La modernità di un pensiero. Fra le tre letture, quindi, preferisco la seconda. Machiavelli visse negli anni in cui l’Italia, soprattutto dopo la calata dei re francesi nella penisola, divenne uno straordinario laboratorio, il luogo in cui non passava giorno senza che venissero inventati nuovi modi di conquistare, governare, stringere alleanze, creare nuovi Stati, ordire nuove trame. In quel teatro della politica e della guerra Machiavelli fu spettatore e in qualche caso attore. Mentre Firenze era retta dal Consiglio dei dieci, fra il 1499 e il 1512, fu incaricato di parecchie missioni diplomatiche in Italia e in Europa, alle corti di Caterina Sforza, Cesare Borgia, Luigi XII di Francia e Massimiliano I d’Asburgo. Conobbe i sistemi politici e le istituzioni civili dei Paesi visitati, studiò la composizione e il modo di operare dei loro eserciti, ebbe incontri e conversazioni con le maggiori personalità del tempo, fra cui un vivace scambio di battute con il cardinale di Rohan, consigliere del re di Francia. Il cardinale gli disse che «gli italiani non si intendevano della guerra» e Machiavelli gli rispose che i francesi «non si intendevano dello Stato» perché altrimenti «non lascerebbero venire in tanta grandezza la Chiesa». Quei viaggi e quegli incontri furono la sua scuola di politica, il materiale con cui avrebbe costruito il suo Principe.
Nell’entomologo e nel diplomatico, tuttavia, vi era anche l’artista, l’autore della Mandragola, della Clizia, di Belfagor, della Vita di Castruccio Castracani, di libri storici e trattati politici che furono anche opere letterarie. Nella descrizione dei personaggi di cui Machiavelli si serve per meglio dimostrare le sue tesi vi è sempre un apprezzamento estetico. Dal racconto della carriera politica di Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI, traspare l’ammirazione dell’artista per il suo modello. Nelle parole con cui tratta i principati ecclesiastici («essendo innalzati da Dio, sarebbe officio di uomo presuntuoso e temerario discorrerne») vi è l’unghiata dello scrittore satirico. In quelle riservate agli utopisti («si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere») vi è l’arte del grande oratore, la giusta combinazione di ironia e disprezzo.
L’inevitabile domanda, quando riapriamo il Principe per una ennesima lettura, è quella della sua modernità. È possibile che questo libro, a cinquecento anni dalla sua apparizione, sia ancora utile e attuale?
In un pamphlet contro Napoleone III scritto da Maurice Joly e pubblicato a Bruxelles nel 1864 (Dialogo agli Inferi fra Machiavelli e Montesquieu), il grande intellettuale dell’era dei lumi dice al segretario fiorentino che le sue teorie sul principe e sulla conquista del potere sono state superate e sconfitte dal trionfo della libertà e del diritto; e Machiavelli ha buon gioco nel ribattere che la carriera di Luigi Napoleone e la creazione del Secondo impero hanno confermato la bontà dei suoi precetti.
I volti del potere. Eppure Montesquieu non aveva interamente torto. Se Machiavelli dovesse riscrivere il suo libro dovrebbe tenere conto di alcune nuove condizioni. I sudditi sono divenuti cittadini e il nuovo principe può ingannare, mentire e reprimere, ma non ignorare interamente i loro voti. Le guerre non sono più il mezzo a cui si può ricorrere per sbrigare rapidamente una faccenda imbrogliata e le battaglie non sono più “giornate”, come si chiamavano allora, in cui si combatte soltanto dall’alba al tramonto. Accanto al principe, alla plebe e alla Chiesa esistono nuovi poteri, più o meno giusti ed efficaci, ma fastidiosi e irritanti, come quelli della stampa, dei giudici, dei mercati finanziari. Machiavelli scriverebbe pagine ironiche e intelligenti sulle banderuole dell’opinione pubblica e si divertirebbe a descrivere la rapidità con cui crea e distrugge le sue effimere verità. Ma non potrebbe fare a meno di constatare che persino i tiranni sono costretti a tenerne conto. Sarebbe invece, oggi come cinquecento anni fa, un impeccabile giudice delle virtù e dei vizi umani. Credo che proverebbe una certa ammirazione per Lenin e Stalin, ma molto ribrezzo per Hitler.
Si sentirebbe legato a Churchill e a De Gaulle da una sorta di parentela e leggerebbe i loro libri con partecipazione e diletto. Promuoverebbe Cavour e Bismarck, creatori di grandi “principati”. Proverebbe una certa curiosità per lo Stato libero di Fiume creato da D’Annunzio nel 1919. Approverebbe il primo decennio di Mussolini al potere, ma giudicherebbe duramente il secondo. Sarebbe severo con i profeti disarmati, da Mazzini a Trockij, da Manuel Azaña, penultimo presidente della Repubblica spagnola, ad Aldo Moro e Michail Gorbaciov. Leggerebbe distrattamente le prefazioni che tre presidenti del Consiglio italiani (Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi) hanno scritto per Il Principe.
Non credo che si presterebbe a dare consigli e a impartire lezioni. Ma se Berlusconi ricorresse alla sua saggezza, gli consiglierebbe di leggere il quindicesimo capitolo del Principe in cui si tratta delle cose per cui i principi sono lodati e biasimati. Machiavelli vi elenca vizi e virtù: avarizia e generosità, crudeltà e pietà, fedeltà e infedeltà, umanità e superbia, lascivia e castità, schiettezza e astuzia, serietà e levità. Tutti pensano che un principe dovrebbe avere soltanto le virtù, ma questo, osserva Machiavelli, è umanamente impossibile. Occorre allora che egli sia tanto prudente da evitare l’infamia di quei vizi che lo priverebbero del potere. Può indulgere negli altri, meno gravi, ma soprattutto non esiti a servirsi di quelli senza i quali la conservazione del potere diventa impossibile. Berlusconi risponderebbe probabilmente: «Grazie, è un passaggio che avevo già letto».
E Machiavelli replicherebbe: «Letto forse, ma non sempre bene interpretato».
Sergio Romano