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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

TU (NON) VUÒ FA L’AMERICANA


[Cristiana Capotondi]

Anche se nelle pagine precedenti la vedete camminare disinvolta per le strade della città, quello tra Cristiana Capotondi – 32 anni di cui 19 passati nel mondo del cinema – e New York non è un rapporto facile e soprattutto non è stato un amore a prima vista.
«Ci sono venuta per la prima volta cinque anni fa, ho resistito solo 24 ore e sono tornata a casa. Non riuscivo a capire come si potesse vivere in mezzo a tutto quel catrame, a quel traffico. Stavo in una stanza d’albergo con le finestre sigillate e da cui, nonostante fossi al quarantesimo piano, non riuscivo nemmeno a vedere il cielo. Mi sembrava di stare su una ruota per criceti. Ho ripreso lo stesso aereo con cui sono arrivata, c’era lo stesso equipaggio. Mi hanno guardata come per dire: “Non è andata bene, eh...”».
Poi ci ha fatto pace con New York?
«Sì, un paio di anni fa ho deciso di tornarci, questa volta sono stata a Downtown e ho scoperto una città più umana, più simile all’idea di vita che abbiamo noi europei. Per me New York è come Disneyland, il posto dove vai e tutti ti chiedono: “Mi porti...”. Io porto tutto quello che i miei amici vogliono, felice di tornare a casa mia».
Non è cresciuta sognando l’America, un po’ come tutti?
«Dall’America non si può prescindere, nel bene e nel male, ma c’è qualcosa laggiù che non mi piace. La società è forte, ma l’individuo non c’è. Tutto il contrario che da noi: siamo un Paese non troppo unito, ma in cui ogni persona può trovare la sua strada».
Patriottica!
«Io sono profondamente italiana, felice di essere italiana. La nostra è una società complessa, ma è proprio questa complessità che ti allena alla vita. Non amo i sistemi troppo funzionali ai suoi giovani: hanno un’idea preconcetta di gioventù, ti costringono a uniformarti, e se stai al di fuori non trovi spazio. Per questo per me l’America è quella di un tempo, quella raccontata da Sergio Leone, che descrive New York come solo uno straniero poteva fare, quella di quando i migranti eravamo noi, mossi da quest’idea di conquistare qualcosa, costruirsi una vita. Quanto sarebbe importante avere nuove terre emerse da conquistare, posti per inventarsi una vita migliore».
Lei sarebbe pronta a conquistare terre emerse?
«Sì, nel mio piccolo l’ho fatto, vivendo un anno a Parigi – dopo il successo di Notte prima degli esami, avevo bisogno di prendere un po’ di distanza da quella notorietà improvvisa –, ma alla fine sto bene a casa. Il mio Paese non mi ha mai deluso, nemmeno in questo momento di crisi. Crisi può anche essere opportunità, l’occasione per ristrutturare e ripensare».
L’ultima volta che è stata sul nostro giornale stava facendo un viaggio in Afghanistan, per un’iniziativa di chari-ty a favore di Emergency promossa da Jaeger LeCoultre, di cui è ambasciatrice italiana. Ci è più tornata?
«No, ma è stata un’esperienza che mi ha segnato molto, ho visto nascere dei bambini, ho assistito al miracolo della vita, che lì, pur nelle difficoltà, conserva un suo significato semplice e altissimo, privo di tutte le sovrastrutture che gli costruiamo qui».
Ci pensa mai ai figli, suoi intendo?
«Un giorno, chissà, ma sono già talmente materna nella mia vita che credo di stare già assolvendo la mia “quota maternità”».
È fidanzata con Andrea Pezzi, ma della vostra storia non parla mai.
«Sì, è vero. Non perché non mi piaccia parlare di lui, anzi. Ma è un modo di tenermi care le nostre cose, di non disperderle. E non è una scelta di non parlarne coi giornali, non lo faccio nemmeno con le mie amiche. Il massimo della nostra conversazione sentimentale è: “Come va? Bene. Come sta Andrea? Bene”».
Preferisce parlare della sua carriera?
«Sì, ma adesso non posso: ci sono cose che stanno succedendo. È un momento pieno. Che poi chiamarla carriera mi pare strano: finora della carriera ho messo solo i mattoni delle fondamenta, speriamo che tengano e non crolli tutto. Per ora vado avanti con un unico criterio: recitare in film che, da spettatrice, andrei a guardare. Mi pare onesto, no?».