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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

SULLA TOMBA SCRIVETE «FAI TU»


[Franca Rame]

SULLA MIA TOMBA farò scrivere: “Fai tu”. È quello che Dario mi dice sempre. Andiamo a questa conferenza? Fai tu. Come si scrivono le parole del suo dialetto inventato, il grammelot, che ho sempre trascritto io? Fai tu. Cosa ci mettiamo per il Nobel? Fai tu. E chiamai Ferré. Ho lavorato a tutti i suoi libri, scelto i suoi vestiti, deciso di eclissarmi anziché fare scenate tutte le volte che è stato necessario. E non mi sono mai sentita alla sua altezza. Non sono una falsa modesta, so quello che valgo, nel Nobel c’è anche il mio nome. Ma lui è eccezionale».
Era il 18 gennaio; ero andata a casa Rame-Fo a intervistare lei (senza sapere che purtroppo sarei stata tra gli ultimi), ma avevamo finito per parlare, mio malgrado, quasi solo di lui. Pochi giorni prima avevo visto una brutta commedia rosa in cui la madre della sposa tuonava: un matrimonio dura solo se lei ama meno di lui. Per tutta l’intervista Franca Rame coprì suo marito di lodi – «Dario ha un cervello come un diamante, ha letto tutti i libri del mondo, si alza alle sette e lavora fino a sera, è il mio grande amore» – eppure non ricordo di avere mai incontrato una coppia più tenera e allegra.

LA CERCAVO da ottobre al telefono; alla fine le lasciai un sms cui rispose dopo tre mesi: «Mi kiami quando vuole. Franca». Kiami, con la k. Io allora kiamai, e il giorno seguente ero da loro.
Mi aprì con un poncho rosso e una mano ingessata: «Sono caduta ad Alcatraz. Sa, le vertigini». Alcatraz è la tenuta del figlio Jacopo, dove fino a poche settimane fa Dario e Franca tenevano seminari di teatro; le vertigini, tagliò corto, «solo un nuovo male dell’età». Parlava pianissimo: nonostante la dizione e il tono animato registrarla era inutile, la sua voce si sentiva appena. Solo Fo, che si diceva «molto duro d’orecchi», capiva al volo ogni parola.
Io dovevo chiederle del suo guardaroba; lei voleva parlare di politica. Del Senato, «i due anni più tristi della mia vita. Ricordo un gran freddo, fuori, per l’aria condizionata che appesta Palazzo Madama, ma soprattutto dentro. Di giorno tutti a stringermi la mano per convincermi a votare contro la mia coscienza, come le missioni in Afghanistan, che votai per ordini di scuderia ma morendo dentro. Di sera cenavo sempre sola, e chiamavo Dario piangendo». E di Veronica Lario: in quei giorni Rame difendeva pubblicamente la buonuscita del suo divorzio. «Dopo le corna in mondovisione cosa dovrebbe fare? Prendere le sue cose e sparire nella nebbia di Macherio? Ha diritto a quei soldi. E poi, un uomo importante le ragazze se le trova nel letto con il bidet già fatto».
Sopra di noi una parete di ritratti di lei disegnati da Picasso, amico della coppia. «Gli autentici, in realtà, sono due; gli altri sei (indistinguibili dai veri, ndr) li fece Dario, spedendoli in Francia perché mi fossero rispediti di là, per farmi credere che ce li mandava Pablo: appena aperto il pacco capii che era un suo scherzo». Chiesi: «La disturbo se fumo?». E lei: «Nessun disturbo cara, ma cazzo, mi vuoi dare del tu?». Poi gli aneddoti: quando Dario le regalò una collana, «ma dovetti pagarla io perché era uscito senza soldi»; quando Jacopo scrisse Lo zen e l’arte di scopare e la chiamò: «Mamma non ti allarmare, esce un mio libro un po’ esplicito»; l’annuncio del Nobel, «quando dovetti mollare Albertazzi in tournée perché Dario mi disse “Se non vieni a Stoccolma rifiuto il premio”, e va bene che abbiamo una collezione di premi rifiutati, ma il Nobel...».

NEL FRATTEMPO FO – curioso – andava e veniva dallo studio con vari pretesti, e la interrompeva: «Ma non è andata così!» (E lei a me: «No, cara, è andata proprio così»).
Sfiorarono un battibecco da Casa Vianello sugli orecchini: quelli rosa, «in oro bianco e corallo peau d’ange», che le avevo visto addosso in tutte le occasioni pubbliche, e di cui le chiesi. Lui non la lasciò iniziare: «Sono un mio regalo. Li avevo visti nella vetrina di un antiquario a Urbino, uguali a quelli della Maddalena penitente di Caravaggio. Un quadro con una storia di gelosia: la modella era amante del pittore; lui un giorno si azzuffò con l’accompagnatore ufficiale di lei e finì in galera...».
Una storia di gelosia, lo corresse lei, gli orecchini l’avevano eccome. «Ma non quella di Caravaggio. Dario si era invaghito di una ragazza che non ho mai voluto vedere. Io gli tenevo il muso: non facevo scenate, piuttosto mi eclissavo. In uno di questi mutismi, una sera rientrai in albergo e trovai questi gioielli sotto il cuscino. Non smisi il muso, ma da allora li porto sempre». Era il 1986. Un anno dopo, a Domenica In, la Rame annunciava: «Divorzio». Raffaella Carrà: «Suo marito lo sa?». Lei: «Beh, ora lo sa». Il divorzio era rimasto solo una minaccia; lui, fotografato mentre baciava una sconosciuta, aveva chiesto perdono e lei aveva perdonato. «Perché un uomo importante», dichiarava a riconciliazione avvenuta, in un’intervista a Paola Jacobbi, «le ragazze se le trova nel letto con il bidet già fatto».
Per averla ripetuta alla lettera a me tanti anni dopo, doveva essere stata, all’epoca, una battuta ben studiata per suonare più brillante che triste. «Ma ora siamo insieme da 60 anni; abbiamo avuto una vita lunga; e lui mi fa ancora ridere», chiuse lei, dopo quasi tre ore. Mi salutò con un abbraccio profumato di rosa – «è T-Rose, una colonia americana quasi introvabile» – e mi disse: «Torna a trovarmi, ti aspetto».

NON POTRÒ PIÙ. Ma di quel pomeriggio e del suo «dammi del tu, cazzo» ho avuto nostalgia settimane dopo, a casa di un personaggio Tv dalla fama ben più recente, che mi ha ricevuta gelidamente con un «niente foto alla casa, niente che il mio ufficio stampa non sappia e soprattutto non parlo d’amore». Al contrario di lei: che con il pretesto di parlare di teatro e moda (il mio pezzo era su abiti e costumi di scena) aveva voluto parlare, in fondo, soltanto di quello.