Mariangela Mianiti, Vanity Fair 5/6/2013, 5 giugno 2013
«TI DEVO PARLARE». E FELLINI CADDE
[Ettore Scola]
Aveva detto che non avrebbe più girato film, e per dieci anni così è stato. Ma quando gli hanno chiesto di pensare a qualcosa su Federico Fellini nel ventennale della scomparsa (31 ottobre 1993), Ettore Scola è tornato dietro la cinepresa e ora sta montando Che strano chiamarsi Federico, titolo ispirato a una poesia di Garcia Lorca. Girato a Cinecittà nel mitico T5, lo studio dove Fellini realizzò tutti i suoi film e sopra il quale viveva durante le riprese, Che strano chiamarsi Federico sarà presentato alla prossima Mostra del Cinema di Venezia.
Che cosa racconta in questo film?
«È una galleria di ricordi, atmosfere, momenti, un certo modo di stare con una persona che era anche animata da lunghi
silenzi. Non so ancora che cosa sarà esattamente. Di solito, quando finisci di girare hai un’impressione precisa perché conosci il rapporto fra sceneggiatura e ciò che hai realizzato. Questa volta questo rapporto mi sfugge, eppure la sceneggiatura l’ho scritta io con le mie figlie Paola e Silvia».
Ettore Scola mi fa sedere dietro la sua scrivania e lui si mette dall’altra parte, in una poltrona più bassa, come a volersi nascondere. La voce roca, le lunghe pause, seduto sghembo, fra una sigaretta e l’altra si lamenta che con questa intervista gli abbiamo rovinato il sabato, poi però parla due ore filate.
Quando ha conosciuto Fellini?
«Nel 1947, nella redazione del Marc’Aurelio, un giornale satirico che conoscevo fin da bambino: lo leggevo a mio nonno che era cieco. Avevo 16 anni e facevo il ragazzo di bottega quando Federico arrivò come nuova firma: si unì a Mosca, Metz, Marchesi, Campanile, Zavattini, Steno».
Erano competitivi tra di loro?
«No, ma si accapigliavano su una vignetta, per decidere se faceva ridere o no. Volava anche qualche vaffanculo».
Diventaste subito amici, lei e Fellini?
«No, i primi anni sono stato in contemplazione, l’amicizia è nata con il tempo. Io ero pazzo dei suoi film, ma anche a lui piacevano molto alcuni dei miei, come Una giornata particolare, C’eravamo tanto amati, Belli brutti e cattivi».
Come le faceva i complimenti?
«Non facendoli: quello che pensava lo lasciava capire attraverso l’amicizia che mi dava. Si stava insieme, si girava molto di notte, anche fino all’alba perché lui era un insonne. Si vagava senza meta e anche senza pensieri, oppure veniva da noi a cena. Come vede, la cucina è dietro quel paravento, fra il soggiorno, lo studio e la sala da pranzo. Per non spargere gli odori abbiamo dovuto mettere una cappa potente e a Federico, che era un freddoloso, tutta quell’aria dava fastidio, per cui mangiava con addosso il cappotto e la sciarpa».
Il suo racconto arriva fino agli ultimi anni di Fellini, non molto felici.
«Era amareggiato perché non poteva più girare. Sono convinto che sia morto per la difficoltà ad avere nuovi contratti. Lo sentiva come un’esclusione. Il cinema per lui era una professione totale. Non gli è capitato quello che, per fortuna, ho conosciuto io: 10 anni fa, dopo una seconda lite con Mediaset, decisi di non fare più film».
Quali furono i motivi delle due liti?
«Lo stesso: l’invadenza della pubblicità. Avevo firmato un contratto per il film Passione d’amore con una clausola che impediva l’inserimento della interruzioni: ci si illudeva fosse possibile, invece Mediaset le mise. Feci causa, e naturalmente persi».
Anche Fellini detestava le interruzioni.
«Le viveva come una violenza personale. C’è una sua intervista che lo testimonia e, se Roberto Andò non l’avesse messa in Viva la libertà, l’avrei usata io».
Vi vedevate spesso negli ultimi tempi?
«Una volta al mese, ma ci sentivamo di frequente. Federico era un gran telefonista. Cominciava a chiamare alle sette per raccontare i sogni che lo ispiravano. E che lui, inevitabilmente, “gonfiava”».
Si dice fosse un gran bugiardo.
«Assoluto, ma inventava per innata fantasia. Era un seduttore verbale e immaginifico. Una volta che doveva lasciare una ragazza, ma non sapeva come dirglielo, mentre le teneva la mano fece finta di svenire. Un’altra volta, per declinare un invito si giustificò con: “Fra venti giorni non posso, ho un funerale”. In lui prevalevano l’irrisione e l’ironia. Non l’ho mai sentito parlare seriamente di un amore o di un dolore».
Si ritiene immaginifico come Fellini?
«No. La cosa giusta l’aveva detta Clemente Fracassi, che smise di dirigere con l’idea che il cinema è un mestiere maledetto: o sei Fellini o non sei nessuno. Federico riconosceva le cose solo se le creava. Per esempio, il mare. Né io né lui sapevamo nuotare, solo che io venivo dalla montagna ed ero giustificato, lui un po’ meno perché era di Rimini. Il mare gli piaceva se riusciva a inventarlo in studio, con la plastica e le luci. Preferiva ricostruire ciò che immaginava piuttosto che filmare la realtà. Anche per questo i suoi film costavano tantissimo».
Vi facevate regali?
«L’ultima volta che lo vidi, in ospedale a Rimini, gli portai materiale da disegno. Lo apprezzò molto».
Ora aspettiamo il suo film a Venezia.
«Anch’io. E se non finirò in tempo darò la colpa a lei, che mi ha fatto perdere questo sabato».