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 2013  giugno 07 Venerdì calendario

TRONCHETTI: QUEST’ITALIA SI MALTRATTA TROPPO. PIRELLI? IL PROGETTO CONTINUA —

Non si azzuffino gli aspiranti: non sarà tanto presto. Marco Tronchetti Provera non avrebbe altrimenti messo tante energie nel duello con la famiglia Malacalza. Ma proprio nel comunicato con cui, mercoledì, Camfin sanciva il divorzio, tra le righe in fondo lo si leggeva. Ora il numero uno della Pirelli lo scandisce chiaro. «Non fosse altro che per ragioni anagrafiche» sta preparando la sua successione al vertice della Bicocca. E dall’interno della stessa Bicocca. Nessun parente in avvicinamento, dunque, nel gruppo che Tronchetti in questi anni ha rivoltato al punto da trasformarlo in una case history di indubbia attrattiva per gli investitori (più stranieri che italiani, per la verità, però anche questo è un indicatore di successo). La sua carta d’identità dice che lui, di anni, ne ha 65. Per completare il percorso della trasformazione non solo industriale di Pirelli, nel cui futuro vede anche «un azionariato sempre più globale», se ne concede altri quattro.
Intanto archivia un anno di guerra con i Malacalza. Turbolenze finalmente finite?
«Direi proprio di sì. Girata pagina».
Con soddisfazione?
«Sì. Adesso guardiamo avanti».
Però, scusi, di questa storia è strano anche il finale. Un azionista va all’attacco, contesta, litiga, esce dalla sala di comando: la controllante Camfin. Ma investe sotto, nella controllata, quella che lei gestisce con pieni poteri: Pirelli.
«Pirelli è una bella azienda, anzi: una delle più belle aziende italiane. E noi evidentemente siamo bravi. Oltre ai bilanci lo provano, credo, questi numeri: 34%,26%, 7%. Il 34% è la quota che fa capo a investitori istituzionali esteri: era il 16% nel 2009, qualcosa vorrà dire. Il 26% è il pacchetto controllato da Camfin. Il 7%...».
... è quello che avranno i Malacalza.
«E per noi va bene».
Potrebbero trasferire la battaglia sotto.
«Magari, invece, è una manifestazione di fiducia nel progetto? Un progetto che, vorrei ricordarlo, è iniziato vent’anni fa, quando fallì l’operazione Continental. L’obiettivo era diventare uno dei grandi player dei pneumatici. Non ci riuscimmo con le acquisizioni, abbiamo puntato sulla tecnologia e sui prodotti di fascia alta».
Quanto a «taglia» non siete lo stesso tra i big.
«No, ma lo siamo per redditività. Gli anni Duemila hanno accelerato l’innovazione e quella che prima sembrava solo una nicchia, il segmento premium, è diventata la carta vincente. Pirelli lì punta alla leadership mondiale nel 2015. Può farlo perché ha spinto sulla tecnologia e rafforzato la presenza geografica: siamo entrati in mercati come la Russia, la Cina, il Messico, in Brasile e Argentina eravamo già il primo gruppo e abbiamo allargato ancora il nostro peso industriale».
Non nomina l’Italia.
«L’Italia è un bellissimo Paese. Ma complesso, e che spreca le proprie opportunità. L’alternativa, qui, per noi era riconvertire o chiudere. Abbiamo riconvertito e mi pare che Settimo Torinese sia un ottimo esempio di come ha funzionato il processo».
Pirelli si sente pur sempre ancora italiana?
«Pirelli è orgogliosa di essere italiana. La testa, il cuore tecnologico sono qui. Dopodiché, è un’azienda globale. Senza la strategia di questi anni, che ha puntato sulla globalizzazione oltre che sulla fortissima accelerazione tech e su investimenti in ricerca tra i più elevati nel settore, non ci presenteremmo con questo biglietto da visita: dal 2009 a oggi abbiamo investito 1,8 miliardi, impiegato in ricerca il 3% dei ricavi, portato la redditività dal 6% al 12,9%, più che triplicato la capitalizzazione».
Il che vi mette al top dei parametri di settore. Margini ce ne sono ancora? Qual è il suo personale traguardo?
«Voglio che Pirelli abbia a una presenza equilibrata sui mercati di tutto il mondo, crescendo sempre nell’alto di gamma. In questo percorso industriale ci sono aree, penso all’Asia, in cui si può salire più velocemente. Magari con partnership. Ma lo puoi fare solo se sei il più bravo e offri il servizio migliore. Così deve continuare a essere».
I risultati sono indubbi, però resta il fatto che senza l’aiuto del fondo Clessidra, di Intesa e di Unicredit lei il controllo del gruppo non l’avrebbe mantenuto. Si è parlato di «operazione di sistema», intendendo «vecchio sistema», e di vero e proprio salvataggio.
«Vorrei che si riflettesse sul lavoro fatto. Ripeto: vorrà dire qualcosa se il 34% dei soci Pirelli sono stranieri arrivati nel gruppo negli anni — gli ultimi tre — in cui i capitali esteri in Italia non venivano o se c’erano fuggivano. Gli investitori, semplicemente, hanno capito che le tensioni non avevano ancora toccato Pirelli ma rischiavano di farlo. E sono rimasti con chi gestiva l’azienda».
Cioè lei.
«Cioè il progetto industriale che li ha premiati e che io in questi anni, insieme alla squadra Pirelli, ho portato avanti. È in quel progetto che credono. È quello il progetto che Clessidra, Intesa, Unicredit e altri partner prestigiosi hanno scelto di affiancare».
Ma lei quanto resterà? Ha comunicato che «alla prima occasione utile» Camfin lascerà il patto Pirelli. É un preannuncio di uscita totale?
«Premessa:   in una certa fase storica i patti di sindacato, seppur con i loro limiti, sono stati spesso la barriera contro la particolare propensione dell’Italia a fagocitare le sue migliori industrie. Dalla chimica in poi. Il patto Pirelli nasce ben prima che arrivassi io e ha accompagnata l’azienda nei momenti difficili, oltre che nel rilancio e nello sviluppo industriale. Ecco, far crescere il gruppo: è questo quello che mi piace e che continuerò a fare. Almeno fino a quando il progetto sarà completato. Dopo, e l’ho detto in assemblea, guarderò dall’esterno la Pirelli volare».
Quel «dopo» come lo misuriamo?
«Il mio desiderio è completare il percorso che ho in mente. Abbiamo accelerato molto in questi tre anni. Nei prossimi, il mio compito sarà preparare il futuro senza di me».
E poi che farà? Barca?
«Spero proprio di sì. L’importante è andarsene un giorno prima che te lo dicano gli altri. Mia moglie e i miei figli hanno l’incarico preciso di avvertirmi, se non sarò io ad accorgermene».
Chi verrà dopo di lei?
«Uno più bravo di me, spero».
Fuor di battuta?
«Sto preparando i manager. Ce ne sono vari, all’interno, con le caratteristiche per crescere: giovani, capaci, con esperienze internazionali».
Lei però riassume entrambe le figure: manager e, insieme, azionista. Quando lascerà, lascerà anche da socio?
«Ho trascorso trent’anni in Pirelli. Come qualsiasi imprenditore ho commesso anche degli errori, ma quello che non ho perso è la disponibilità a guardarli in faccia e ammetterli. Sono fiducioso che nei prossimi anni saremo capaci di continuare a creare valore. Se vinceremo la sfida, ci saranno altri che vorranno investire. Alla Pirelli sarò comunque sempre vicino».
Lei ha in mente un’azienda con un azionariato sempre più globale. Pensa davvero che l’Italia sia un terreno maturo?
«L’ho detto prima: dal lato azionisti, oltre che per presenza geografica, la Pirelli è già innanzitutto un’azienda globale».
Ha un tono amaro, ogni volta che parla del Paese.
«Perché le aziende italiane, Pirelli compresa, l’orgoglio di appartenere a questo Paese ce l’hanno. Ma sono trattate meglio all’estero. Come succede con tutte le cose di valore che abbiamo, dal turismo ai musei, sappiamo maltrattarci bene».
Perché rimane, allora?
«Resto convinto che “il Paese può”. Può perché possono gli italiani, che nell’ultimo anno e mezzo hanno dato segnali chiari: vogliono guardare avanti e credere nel futuro».
Non hanno avuto molte risposte.
«E infatti hanno già punito chi le prometteva e ora parla d’altro».
Tre cose che lei farebbe subito?
«Ne basterebbe intanto una: utilizzare tutte le risorse possibili per risolvere il problema della disoccupazione giovanile. Un Paese che trascura il proprio futuro è folle. Ma questo vale anche per buona parte d’Europa. Così come c’è un tema di cui si parla poco, che è globale, e che rischia di avvelenare tutto di nuovo».
Sarebbe?
«Il debito. Le scadenze vanno allungate, o la nuvola tossica cadrà. La questione è semplice: stiamo già pagando i danni di guerra, cioè della grande crisi, o invece in guerra ci siamo ancora?».
Secondo lei?
«La guerra ancora non è finita».
Raffaella Polato