Riccardo Sorrentino, il Sole 24 Ore 7/6/2013, 7 giugno 2013
FMI, LUNGA CATENA DI ERRORI
Quanti errori... In Grecia, come ha ammesso il Fondo monetario internazionale (Fmi); ma anche a Cipro, dove è stato catastrofico il mancato intervento della troika, che non ha bloccato il governo di Nicosia quando ha voluto tassare gli stessi conti correnti assicurati dall’Unione europea, quelli inferiori ai 100mila euro.
Poi si può discutere di Portogallo e Irlanda - perché no? - o della Spagna, non certo inadempiente sul piano fiscale con il suo debito; e persino dell’Italia e delle sue piroette politiche. Si può ricordare l’intervento tedesco del 2010 sul divieto delle vendite allo scoperto e sulle operazioni di credit default swaps, che ha solo disordinatamente trasferito gli scambi a Londra; all’aumento dei tassi della Bce del 2011 che inviò ai mercati, nel momento sbagliato, il segnale della fine della politica espansiva; o quello del luglio 2008, quando il petrolio era a 146 dollari ed erodeva la crescita, deciso solo per "lanciare un messaggio" ai sindacati tedeschi a trattative appena aperte.
Volendo si può andare anche indietro. Alla clemenza usata nel 2005 con Francia e Germania colpevoli di aver sforato il 3% nel rapporto deficit/pil (un altro cattivo esempio). Persino, per tornare a parlare del terzo triumviro della troika, l’Fmi, si può rievocare la crisi argentina, o quella asiatica, che ha insegnato molte cose alle economie dell’Estremo Oriente – ora piuttosto brave nella prevenzione dei rischi macroeconomici - ma poche, evidentemente, a tutti gli altri.
La gestione macroeconomica delle crisi lascia molto a desiderare, e da tempo. Il nostra culpa degli economisti del Fondo testimonia l’onestà intellettuale di quegli analisti – la stessa che li spinge a riconsiderare il peso delle diseguaglianze nella crescita e nell’efficienza economica, o a rivalutare i controlli di capitale - ma corre il rischio di creare solo un capro espiatorio: la Commissione Ue e la Bce, su cui molte cose si potrebbero dire, hanno seccamente respinto l’invito a condividere le responsabilità.
Anche cercare le colpe può però diventare sterile. Si può cadere nel paradosso di Bossuet: («Dio ride degli uomini che si lamentano delle conseguenze mentre alimentano le cause»), senza risolvere i problemi. Il vero nodo, in realtà, è il fatto che gli errori, in un certo senso inevitabili, vengano riconosciuti sempre troppo tardi. Soprattutto se si tiene conto della massa degli economisti che, magari usando una metodologia effettivamente troppo semplicistica, possono però rivendicare a buon diritto: "L’avevamo detto, no?".
La cosa che dovrebbe far pensare è che l’errore nelle politiche di risanamento è quasi sempre lo stesso: una preferenza di fatto per i creditori. Come se non toccasse a loro un’attentissima valutazione dei rischi - conoscono molto meno cose dei debitori sulle operazioni che finanziano - e come se nel "prezzo" che ottengono, il tasso di interesse, non fosse compreso anche un premio per questi rischi. Eppure è così: l’intero impianto della politica economica attuale – dall’inflation targeting della politica monetaria alla struttura del sistema finanziario globale – favorisce i creditori. Tra i quali non ci sono, val la pena di sottolinearlo, le imprese e i governi, ma i lavoratori dipendenti (finché conservano il posto di lavoro...) e soprattutto i risparmiatori, i capitalisti, e i rentiers.
Cos’altro è successo, in Grecia, se non il tentativo di proteggere i creditori da un default che avrebbero dovuto mettere in conto, vista la situazione del paese? In Argentina nel 2000 non andò diversamente: quell’intera, complessa, saga può essere letta come il tentativo di proteggere il più possibile i creditori – lo stesso Fondo non ha mai rinunciato a un centesimo di quanto gli era dovuto – peggiorando di fatto la situazione. E così andò in Thailandia, primo focolaio di una crisi che si espanse ai paesi vicini e poi alla Russia: a Bangkok il governo resistette il più possibile per evitare la caduta del baht e poi fu costretto dall’Fmi ad alzare i tassi per "ripristinare la fiducia" degli investitori. Solo il concomitante rialzo dei prezzi agricoli protesse i cittadini più deboli di quel l’area da una crisi che minacciava di essere persino più rovinosa. In quel frangente la Malaysia, che si ribellò ai diktat del Fondo e chiuse le proprie frontiere ai capitali, dette a tutti una lezione importante che l’organizzazione di Washington poi accettò, ma di cui evidentemente non ha fatto abbastanza tesoro.
In questo atteggiamento, non c’è necessariamente una presa di posizione ideologica. È piuttosto il tentativo di creare un contrappeso alla proclività dei governi a indebitarsi scaricando sul futuro, sui governi successivi o sui cittadini attraverso l’inflazione, il peso del risanamento. In tutte le grandi crisi finanziarie sovrane in cui il ruolo dell’Fmi (o della troika) è dubbio si può trovare questo atteggiamento malsano della politica, a conferma che cercare il colpevole non è così semplice. La conseguenza è che ogni cedimento a favore dei paesi debitori viene visto – non senza ragioni – come un incentivo a proseguire per la stessa, insana strada. Le soluzioni adottate, però, puntano spesso a vietare alcune politiche – quelle che poi mancano all’appello – invece di coordinarle tutte alla ricerca di un pragmatico, anche se difficile, equilibrio: l’obiettivo comune della ripresa.
C’è un sistema diverso, più equilibrato? Forse sì. Nel 1944, quando si progettava l’Fmi, John Maynard Keynes disegnò un meccanismo finanziario internazionale che poneva l’onere del risanamento sui creditori, introducendo una sorta di caveat creditor, analogo al caveat emptor ("stia attento il compratore") del diritto privato civile. La proposta sembrava portare avanti gli interessi della Gran Bretagna indebitata, ma pensarlo significa essere ingenerosi verso il grande economista. Oggi, settant’anni dopo, molte cose sono cambiate – tra l’altro debitori sono gli Usa, creditori Cina e Germania – e quell’impostazione va rielaborata. Un sistema più bilanciato, che non divori se stesso, sembra però necessario.