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 2013  giugno 07 Venerdì calendario

TU NON PAGHI E IO STRINGO

Sessanta miliardi in meno. Dal primo dicembre 2011 a oggi, come ha documentato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, le banche hanno sottratto al sistema delle imprese il 4 per cento del monte prestiti (pari a 1.500 miliardi) fotografato a fine 2012. Tanto per avere un ordine di grandezza, è una cifra pari a tre volte gli utili previsti dal sistema del credito di qui al 2015 (21 miliardi secondo Prometeia). Prudenza dei banchieri che preferiscono tirare i freni per tutelare i propri bilanci? Oppure colpa dei clienti, imprese e famiglie, che, flagellati dalla crisi, rinunciano a investire e a consumare? Sul tema del credit crunch, il razionamento del credito, le Considerazioni finali del 31 maggio hanno apparentemente spalmato unguento bipartisan. La stretta c’è, ma dipende anche dalla qualità dei prenditori. «Il governatore l’ha detto chiaro: anche le imprese devono fare la loro parte», si fanno forti all’Abi: «Devono investire risorse proprie e non invocare sempre il sostegno pubblico». «D’altra parte», sottolineano dalla lobby bancaria, «noi investiamo i soldi della signora Maria: non possiamo mica rischiare di non restituirglieli».
Sul fronte opposto, le imprese snocciolano le cifre della contrazione. Secondo un recente rapporto della Confindustria la stretta creditizia ha contribuito non poco alla riduzione del 15 per cento del potenziale manifatturiero italiano che si è verificata dal 2008 a oggi. Dai dati della Cerved e della Centrale rischi risulta inoltre che 61 imprese su 100 hanno subito una riduzione del credito nel 2012 e a soffrirne di più è stata proprio l’industria manifatturiera (meno 7,4 per cento). Persino per le imprese più sane secondo il rating del rischio bancario dall’anno scorso è iniziato il calvario. La chiusura dei rubinetti, nel 2012, ha operato a tutto campo: ha interessato non solo quelle giudicate rischiose e che già erano tenute alla larga dagli sportelli del credito dall’anno precedente, ma anche quelle giudicate vulnerabili, e pure quelle considerate sane (che si sono in molti casi rivolte, e sempre più si rivolgeranno in futuro secondo l’agenzia di rating Standard & Poor’s, direttamente al mercato delle obbligazioni). Una impresa su tre non ha ottenuto il finanziamento richiesto, una su dieci si è vista cancellare il fido o ha ricevuto la telefonata del direttore di banca per ridurre il castelletto, oppure gli è stato chiesto di rientrare del debito più rapidamente. «Quando l’economia correva e le banche erano in concorrenza tra loro», dice Massimo Cavazza, vicepresidente dei Piccoli di Confindustria, «per conquistare il cliente erano disposte a tutto. Oggi non solo mi chiedono tutti i documenti per conoscere e valutare il mio business, e va bene, ma anche le garanzie di un Confidi». Che naturalmente ha un prezzo. «La garanzia del Confidi costa l’1, anche l’1,5 per cento», continua Cavazza, che si aggiunge al costo del prestito che è già superiore alla media europea. E poi vogliamo parlare della commissione chiesta sulla disponibilità del fido? Può arrivare fino al 2 per cento annuo, che su un castelletto di 1 milione fa 20 mila euro all’anno». Oggi i prestiti assistiti da garanzia tipo Confidi sono arrivati al 67 per cento in media, ma per le piccole e medie imprese la cifra sale all’82 per cento.
«È giusto non prestare il denaro alle imprese-zombie», aggiunge Stefano Allegri, titolare del Panificio Cremona (5 milioni di fatturato) e giovane imprenditore di prima generazione, «ma un conto sono le condizioni per concedere il credito, un’altra sono le modalità. Un imprenditore che ha a cuore la sua azienda spesso non può accettare quello che gli chiedono le banche: se oltre al rimborso di capitale più interessi si devono offrire altre garanzie, e magari fideiussioni sul patrimonio personale, molti rinunciano. Così anche le imprese sane, che hanno potenziale per crescere, sono condannate a rallentare».
I banchieri, soprattutto quelli di prima fila, non ci stanno ad apparire come gli Erode delle imprese minori, sebbene dai dati Bankitalia risulti che anche loro hanno fatto la loro parte (i cinque gruppi più grandi, a cui fa capo il 45 per cento del totale dei finanziamenti all’economia, hanno ridotto dell’1,3 per cento i prestiti nel 2012). «Il sistema bancario italiano ha totalizzato 40 miliardi di perdite sui crediti alla piccola e media impresa negli ultimi 5-6 anni», attacca Roberto Nicastro, direttore generale di Unicredit, «non ci si può sorprendere se ci muoviamo con prudenza». «D’altra parte anche in Germania, dove Unicredit è al secondo posto come finanziatore delle Pmi e le aziende sono sane, i tassi bassissimi e le banche superliquide, ebbene: il credito è fermo. Qual è il problema? Le aspettative. Anche lì, con una crescita del Pil dello 0,6 per cento, è tutto fermo», conclude Nicastro. Stesso scenario, se non peggio, da noi, secondo il capo di Intesa Sanpaolo, Enrico Cucchiani: «È la domanda di investimenti che in Italia si è contratta del 25 per cento dal 2008 al 2012. Comunque per noi il credit crunch non esiste: la nostra quota di mercato cresce». Intesa dichiara di aver accresciuto gli impieghi nelle Pmi da 150 a 160 miliardi dal 2010 a marzo 2013; Unicredit si può vantare di aver accordato da gennaio 2012 a oggi 1,4 miliardi di finanziamenti a oltre 10 mila start up e di aver appena concluso un accordo con la Bei per nuovi mezzi da destinare proprio ai piccoli.
Sforzi che si possono permettere solo le grandi banche, con tutti i parametri di patrimonializzazione a posto? Sicuramente sì, visto che sono i piccoli istituti a risultare maggiormente "impallati" dalla crisi. Di fatto però, nonostante la stazza e la buona volontà dei giganti bancari, quello che fanno non basta per dare nuova linfa al sistema industriale. L’handicap che frena il mondo del credito tutto si chiama sofferenze, cioè quella voce che assomma la quota di prestiti che hanno difficoltà crescenti a essere restituiti. L’anno scorso, sono passati a sofferenze 39 miliardi di prestiti: per ogni 100 euro prestati alle imprese, 4 non torneranno mai indietro. Il Centro Europa Ricerche, nel suo recente Rapporto banche, stima le sofferenze del sistema a 125 miliardi e prevede che in tre anni arriveranno a 150.
Ma soprattuto mette in evidenza un fenomeno: il tasso di copertura dei crediti in sofferenza con la crisi invece di salire è andato scendendo. «Lo hanno fatto per non comprimere ulteriormente gli utili, che stavano calando», spiega uno degli autori del rapporto, Carlo Milani. C’è voluto un intervento severo della Banca d’Italia per mettere le cose a posto e riportare il rapporto a un livello di maggiore prudenza. C’è il rischio però che molte banche, soprattutto quelle piccole, non abbiano ancora completato l’operazione pulizia sui crediti inesigibili: questo gli impedisce di fare il loro mestiere di prestare denaro, perché alimenterebbe la spirale del rischio.
Un meccanismo micidiale. I suoi effetti già si vedono nei bilanci delle banche, con utili ridotti all’osso o sottozero. Per recuperare un po’ di redditività, le banche tengono alti i tassi (sono più alti della media europea, osserva anche Visco) e questo nonostante vi sia ormai una abbondante liquidità nelle casse delle banche e un costo della raccolta in ribasso (all’1,3 per cento). Che fare per risolvere una situazione così complessa, così apparentemente priva di vie d’uscita naturali e spontanee? «La situazione si potrebbe affrontare aumentando il capitale delle banche o riducendo gli utili agli azionisti», dice Milani, «ma nessuno vuole farlo, perché le banche godono di una garanzia dello Stato "implicita": se falliscono è lo Stato che dovrà intervenire. Quindi, perché dovrebbero fare sacrifici sull’utile o per nuovo capitale?».
I banchieri hanno un’altra soluzione. «Sarà fondamentale lo sblocco dei pagamenti della Pubblica amministrazione», afferma Nicastro, «ma occorre fare di più sul fronte delle co-garanzie. Lo hanno detto anche i saggi nominati dal presidente Napolitano. Siamo in una situazione di incertezza, in cui tutta l’Europa occidentale è come sotto una nuvola di Fantozzi: se la banca sa che, di fronte a un’insolvenza, si accolla solo metà della cifra, mentre l’altra metà la paga un Fondo di garanzia, è più tranquilla». E chi deve gestire questo fondo? «L’unico che può prendersi questo rischio è l’operatore pubblico», conclude Nicastro. L’Abi su questo ha già fatto le sue mosse, sottolineando che una garanzia di questo tipo non rientra nel debito pubblico e dunque non è il caso di tirare in ballo vincoli di spesa che non esistono.
Ci starà il governo a un simile intervento di sistema? La Banca d’Italia per ora tace. Preferisce puntare su un’altra soluzione. Quella della cartolarizzazione dei crediti in sofferenza, estratti dai bilanci delle banche, che dunque potrebbero rifiatare. Ma chi potrebbe rilevarli? Chi se non la Bce? Che potrebbe comprarli a prezzi di favore, cioè non troppo scontati. Il credit crunch promette di farci vedere cose mai viste prima.