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 2013  giugno 07 Venerdì calendario

SULLA CRISI IL REALISMO DI DRAGHI

Ieri la Bce non ha deciso nulla di speciale e Draghi ha mostrato una cautela quasi scettica circa l’utilizzo, nel prossimo futuro, di nuove misure straordinarie come tassi di interesse negativi o supporti più diretti al credito per le piccole e medie imprese.

Sarebbe una non-notizia se non fosse una presa d’atto importante che in Europa non si vuol ricorrere a magie monetarie per risolvere i problemi strutturali che ostacolano la crescita e l’adattamento ai grandi cambiamenti del mondo.

In questo l’eurozona differisce dalle altre maggiori aree monetarie. Sia negli Usa che in Giappone le banche centrali mirano con molta più ambizione a stimolare direttamente l’economia reale e l’occupazione. Lo fanno finanziando massicciamente i rispettivi governi e anche i privati, dai quali acquistano, più o meno direttamente, vari tipi di attività, sostenendo i loro prezzi e gli indici di borsa. Qualcuno pensa che nello stampare tanta moneta mirino anche a svalutarla, per facilitare le esportazioni e rubare mercato a economie concorrenti: la «guerra delle monete», che è ovviamente sterile, perché le svalutazioni si annullano vicendevolmente, e porta disordine e instabilità.

Per ora non hanno avuto gran successo. Negli Usa la crescita post-crisi è discreta ma è la somma di tre parti: la prima, quella che risulta dagli stimoli monetari, è artificiosa e precaria, considerata fragile e non a lungo sostenibile dagli investitori migliori e più lungimiranti; la seconda è il risultato del ruolo mondiale del dollaro che consente agli Usa ciò che ad altri non può riuscire; la terza, la più sana, è frutto della maggior flessibilità dell’economia americana, della vivacità delle sue innovazioni, della concorrenza e della meritocrazia, della capacità di spostare più rapidamente le risorse dove l’evoluzione delle cose le rende più produttive. Chi riuscisse a stimare a documentare bene quale percentuale della maggior crescita Usa è compresa in questa terza parte darebbe un contributo di ricerca prezioso per la politica economica mondiale.

In Giappone sono vent’anni che tentano di sbloccare l’economia con enormi deficit pubblici, ora hanno avviato fiumi di creazione monetaria, ma il risultato è un alterno su e giù del cambio, della borsa, delle speranze di rivedere il Giappone «innovatore» e protagonista che ci aveva abbagliato negli Anni 80: gli stimoli macro-monetari non paiono vittoriosi, le riforme sono lente, i mercati perplessi, i pericoli di instabilità crescenti. D’altra parte non è escluso che anche in Giappone potremmo prima o poi vedere una parte di ripresa seria, che non è dovuta alla moneta ma, per esempio, a qualche accelerazione nella modernizzazione politica del Paese o al miglioramento dell’integrazione economica e delle relazioni internazionali nell’estremo oriente.

Da noi la Bce non ha esitato ad affrontare la crisi con decisione, ha inventato nuove modalità di intervento, ha aiutato nell’emergenza governi e banche in crisi di liquidità e di insolvenza, si è dichiarata pronta a fare tutto ciò che occorre per evitare che si potesse auto-realizzare l’aspettativa di rottura dell’euro, sulla quale i mercati parevano basare sempre più le loro speculazioni. Come ha illustrato anche ieri Draghi, il risultato è un evidente miglioramento della funzionalità dei mercati finanziari europei. Ma ciò non basta a far riprendere con decisione le economie di Paesi che stentano a modernizzare i loro mercati, a ridirigere le spese per l’istruzione e la ricerca in modo da rinnovare le capacità produttive e ridurre la disoccupazione strutturale in un mondo che cambia rapidamente, a ristrutturare il welfare, le pubbliche amministrazioni, le banche, a togliere protezioni e sussidi ai comparti meno efficienti dei loro sistemi produttivi, ad aumentare la concorrenza, a favorire il completamento dell’enorme mercato unico su cui l’Ue potrebbe contare, a cooperare più decisamente delegando poteri a organi sovranazionali comunitari. L’accomodamento monetario può «comprare tempo» per fare tutto ciò ma, abbastanza presto, l’acquisto diventa pericoloso, illusorio, e anche controproducente, perché addormenta gli stimoli a far le riforme.

Se sono più giuste la visione e la strategia della Bce di quella delle altre banche centrali, verrà il tempo che i mercati premieranno l’euro, l’Europa e il loro ruolo nel mondo. A un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse del fatto che ad alcuni Paesi, compresa la Francia, la Commissione ha dato più tempo per ridurre il deficit pubblico, Draghi ha risposto che il rinvio non fa miracoli e dev’essere condizionato al fare le riforme incisive che lo possono rendere utile, rendendole socialmente sopportabili. Non ha esitato a rispondere in modo analogo a un giornalista spagnolo che, con voce un po’ triste, gli ricordava che nel suo Paese la disoccupazione è al 27% e che in tali condizioni non sembra aver senso mirare a tener bassi l’inflazione e il deficit pubblico; ha sottolineato che in Spagna si è dovuto, ad esempio, sgonfiare drasticamente un intero settore, quello dell’edilizia. E con la Grecia? Non potevamo consentirle un aggiustamento meno traumatico, come ora afferma anche il Fmi? Al di là di pentimenti ex post, ha detto Draghi, meglio guardare avanti e scoprire che anche in Grecia, come in quasi tutti i Paesi europei, c’è ormai consapevolezza che la soluzione sta nelle riforme. Il messaggio è chiaro fino alla spietatezza: chi è d’accordo può avere qualche ragione di paziente ottimismo.