Vittorio Zucconi, D, la Repubblica 1/6/2013, 1 giugno 2013
SOS SOLDATO JANE
Nella sua smagliante uniforme blu profondo illuminata da file di nastrini sul petto e dalle bande dorate del grado alle maniche, il tenente pilota Paula Coughiin uscì poco dopo le 11 di sera dall’ascensore al terzo piano dell’Hilton Las Vegas, dove la festa annuale degli aviatori di Marina cominciava a scaldarsi. Bellissima, già eletta fra le dieci più belle in servizio nelle Forze Armate Usa, era esibita dal Pentagono come un esempio felice di integrazione delle donne nei ranghi militari, tra la Guerra Fredda e la Guerra nel Golfo. Non sapeva, quella sera a Las Vegas, che il nemico non aveva ne i baffi truculenti di Saddam Hussein ne il colbacco dell’Armata Rossa, ma indossava esattamente la sua stessa uniforme blu.
Mezz’ora dopo essere uscita dall’ascensore dell’Hilton, il tenente di Marina Paul Caughiin si era rinchiusa in uno stallo del bagno delle donne, sotto shock. I bottoni della sua divisa blu erano strappati, come la camicetta sorto. La gonna era imbrattata di liquori e vomito. Il collant era rimasto, come un trofeo, nelle mani degli aviatori sbronzi che le avevano organizzato il gaumlet, la sfida, che attendeva le donne ignare all’uscita dall’ascensore e ancora sentiva, racconterà più tardi, quelle mani che la frugavano dalla testa ai piedi. Non era sola, Paula, in quel bagno donne, ma aveva una qualità speciale: era l’assistente di un ammiraglio a tre stelle a Washington. A lui, rientrando dalla tragica festa di Las Vegas, avrebbe raccontato tutto, scatenando il caso che sarebbe passato alla storia degli Stati Uniti, come il “momento della verità” sull’integrazione uomini-donne in uniforme. Fu chiamato, dal nome dell’associazione che organizzava il party annuale all’Hilton Las Vegas, il caso Tailhook, dal gancio che gli aerei di Marina portano sotto la coda per intercettare i cavi di acciaio sul ponte delle portaerei e arrestarsi.
Sono trascorsi 22 anni dallo scandalo Tailhook, che nel ’91 costò il posto e la carriera al ministro della Marina, a quattro ammiragli e spinse il numero due della US Navy, l’ammiraglio Boorda, a suicidarsi con un colpo di pistola al petto. Ma la “svolta” che la denuncia del tenente Coughlin avrebbe voluto imprimere non è ancora avvenuta. O si è sterzato semmai nella direzione opposta, perché i casi di stupri, molestie, discriminazione sessuale sono in continuo aumento, nonostante denunce, carriere stroncate, corti marziali, corsi di sensibilizzazioni, inchieste interne, commissioni parlamentari e proclamazioni di “tolleranza zero”. Talmente frequenti da avere fatto perdere le staffe anche al presidente Obama, che all’inizio di maggio ha annunciato di essere «stanco di parole, sentenze troppo miti, inchieste insabbiate, complicità». E di esigere, come ogni suo predecessore da quando le femmine furono ammesse in servizio attivo 40 anni or sono, “tolleranza zero”.
È stato il Pentagono stesso, non sempre una casa di vetro, ad ammettere che la Guerra Invisibile, come s’intitolò un documentario sulle notti di Las Vegas, continua e che le gerarchie militari la stanno perdendo. Favoriti dalla guerra su due fronti che dal 2011 ha spedito centinaia di migliaia di soldati e soldatesse, aviatori e aviatrici, marinai e marinaie in accampamenti, basi, navi dispiegate in missioni di mesi dal Golfo Persico all’Oceano Indiano, stupri e molestie sessuali sono ormai, ufficialmente, “un’epidemia”.
I casi di violenza sessuale in tutte le sue espressioni sono passati da uno ogni 26 persone in servizio nello studio condotto nel 2010 a uno ogni 16 nel 2012. L’inchiesta del Ministero della Difesa calcola a 26mila gli effettivi di due divisioni intere il numero di coloro che hanno subito violenze o molestie gravi, ma le reti informali di veterani e reduci triplicano questo totale, portandolo a 80mila. Non soltanto femmine. Se le donne in uniforme stanno trovando il coraggio di denunciare, pur sapendo che cosa rischiano in reputazione, ostracismi e carriera, pochissimi sono ancora i maschi capaci di ammettere di essere stati violentati. La cultura del “machismo”, specialmente acuta nel mondo delle armi, diffonde il terrore di essere bollati come omosessuali consenzienti. Il governo Usa stima che 13mila soldati abbiano subito attacchi sessuali.
Da qualche anno funziona, al Pentagono, una “linea rossa” per raccogliere nella massima discrezione le denunce. Ma la “linea rossa” non garantisce che all’altro capo della conversazione ci sia la persona giusta. Proprio mentre il governo completava lo studio sulla “Guerra Invisibile”, lo scorso maggio, la Polizia Militare arrestava il colonnello Jeff Kruzinski, responsabile del servizio di assistenza e consulenza per le vittime di stupri nell’Air Force. La sua foto scattata dopo l’arresto mostra il volto di un uomo lacerato e ferito da unghiate: i segni lasciati dalla donna che era andata da lui a denunciare una tentata violenza e che il colonnello aveva prontamente cercato di violentare. Ci sono fasci di possibili spiegazioni a questa epidemia, che non si può licenziare come effetto della promiscuità forzata della vita militare o della convivenza claustrofobica. Le donne che indossano le uniformi di Esercito, Marina, Aviazione e Marina arrivano a 240mila e dunque il numero di “sorelle in armi” è ormai abbastanza da promettere un buon grado di solidarietà e di sostegno fra di loro. Ma la spiegazione più semplice e terrificante è quella che donne come Brigette McCoy, violentata due volte in Iraq a 19 anni, offre: «Lo fanno perché possono farlo».
Possono farlo e possono contare su un’altissima probabilità di farla franca. L’85% delle violenze non sono denunciate, testimoniano le reduci organizzate da Protect Our Defenders, che fu fondata proprio dall’ex tenente Paula Coughlin, proteggete chi ci difende, e il 92% delle denunce non arrivano alle Corti Marziali. A una caporale di fanteria. Rebecca Havrilla, che chiese l’assistenza del cappellano militare assegnato alla sua unità, il religioso rispose: «È stata la volontà di Dio, accettala». Ma per volontà di Dio e per resistenza di Twitter, il suo stupratore ebbe l’insondabile idiozia di mettere in rete la propria foto e di vantarsi dell’assalto riuscito.
Per le vittime, che hanno almeno diritto all’assistenza psichiatrica «non per dimenticare, ma per convivere con quello che ti è stato fatto», come dice Brigette McCoy, il Pentagono spende 500mila dollari in terapie lunghe una vita, nella speranza che trovino un po’ di pace. Come il tenente Coughlin, che sembra avere trovato, sposandosi e avendo figli, un rifugio dal ricordo. Ora è istruttrice di yoga.