Massimo Gaggi, Style 30/5/2013, 30 maggio 2013
THOMAS HOUSEAGO
«A Los Angeles, dove ora vivo e ho il mio atelier di scultore, avevo un po’ di problemi con un’insistente sinusite. Vado da un medico. Mi sottopone a qualche esame e alla fine dice: “Complimenti, hai ben quattro fratture del setto nasale, una sull’altra”. Sono l’eredità della mia infanzia violenta a Leeds, città del Nord industriale inglese che, perse le fabbriche, è precipitata in un buco nero. Ubriachezza ovunque, anche tra i bambini. Droga, risse che scoppiano puntualmente nei pub, poco prima dell’ora di chiusura. Donne che urlano e picchiano quanto gli uomini. Oggi, quando mi dicono che la mia arte è potente ma anche violenta, che molte mie opere sono visioni dell’inferno, rispondo che riflettono il cambiamento della psicologia sociale di un’America. Paese del quale sono diventato cittadino, che si sforza di vivere normalmente, ma che da 11 anni è in guerra. Poi, certo, mi porto dentro anche quegli anni difficili».
Thomas Houseago, 41 anni, scultore inglese trapiantato negli Usa che viene ad accogliermi sulla porta scalzo, in jeans e maglietta, è un ragazzone biondo con molti muscoli e i capelli corti. Mani forti, mascella pronunciata, risata esplosiva, potrebbe essere un operaio che esce dalla sua acciaieria a fine turno. Ma a Leeds non ci sono più altoforni. La sua fabbrica Thomas se l’è costruita a East Los Angeles, dove il suo studio è ormai un capannone lungo un intero isolato. All’interno, una ventina di persone lo aiutano a realizzare sculture sempre più imponenti e richieste: dalle gallerie di tutto il mondo e da miliardari collezionisti come il francese Francois Pinault (il re del lusso, proprietario tra gli altri di Gucci e Yves Saint Laurent), Eli Broad, Charles Saatchi e Steven Cohen, uno dei più grandi (e discussi) protagonisti del mercato degli hedge fund.
«Sono ormai sette le fonderie che lavorano per me» racconta. E lui stesso sembra incredulo per questa trasformazione: abituato a fare tutto da solo, compreso sgombrare i detriti e gettar via le sculture non riuscite, oggi si mette a fare il «team manager». Houseago è l’uomo del contatto fisico con la materia: «Mi piace toccare, plasmare, costruire. Anche demolire, perché in questo mestiere a volte flirti col fallimento. La mia scultura è così: una drammatizzazione dello spazio tra l’occhio e il mondo, tra quello che senti e vedi oggi e memorie che vengono evocate». Memorie drammatiche quelle richiamate dalle sue imponenti figure che per la prima volta sono state installate all’aperto, sulle colline dello Storm King Art Center nella valle dell’Hudson, a Nord di New York. Opere esposte in mezzo a quelle di Alexander Calder, Isamu Noguchi, Arnaldo Pomodoro, Henry Moore, Roy Lichtenstein. Arte forte ma anche cupa: scheletri, figure in decomposizione, una testa gigantesca che in qualche modo ricorda l’elmo di Darth Vader, il cattivo di Guerre stellari.
Arte che in questi giorni sbarca a Roma: Houseago espone i suoi nuovi lavori nella Galleria Gagosian, e anche in una cattedrale del classicismo, la Galleria Borghese.
Che c’entra l’uomo delle cupe visioni infernali con le cupole dorate della città eterna, rinascimentale e barocca, imbevuta del virtuosismo di Gian Lorenzo Bernini? Come tanti racconti di vita di Houseago, anche questa è una storia affascinante e drammatica: «Avevo fatto la mia prima esposizione in Gran Bretagna. Un’esperienza emotiva molto forte: il ritorno nella mia terra. Il curatore della mostra, Michael Stanley, grande amico e grande personalità della scena artistica britannica, dopo poco si suicida. Per me è un colpo durissimo. E a Londra sprofondo in uno stato d’animo tetro. Larry Gagosian se ne rende conto e mi dice: “Vai a Roma, hai bisogno di sole, cieli sereni. Devi respirare un’aria diversa”. Ho seguito il suo consiglio ed è stato fantastico: conoscevo l’arte italiana, ma non mi ci ero mai immerso davvero. Michelangelo, ovviamente, ma ho scoperto anche Donatello e Masaccio. E poi, certo, il Bernini. Già, che c’entro io, uomo di una cultura nordica con poca luce e una formazione che preferisce l’installazione alla creazione di un oggetto ben definito, con Bernini? Beh, Roma con le sue luci, i colori, l’atmosfera stimolante e rilassata, è stata l’antidoto perfetto al mio oscuro periodo londinese: mi sono immerso con entusiasmo in un modo di trasformare il tempo e lo spazio così diverso dal mio, eppure potente. Mi sono anche chiesto se potevo tentare la strada della scultura figurativa. Certo, non potrò mai avere nulla a che fare col Bernini, la nitidezza delle sue figure, il suo virtuosismo. Ma ne capisco e apprezzo il realismo. E come lui ho il piacere di costruire un corpo».
A Roma esordirà, quindi, un Houseago più solare? Vedrete, qualcosa è cambiato. Certo, non è una metamorfosi. «Io sono sempre il ragazzo di Leeds che a scuola ha imparato una sola cosa, a sopravvivere. E ad amare William Shakespeare». Ma da quella scuola è uscito con la forte determinazione a essere un artista. E anche con qualche strumento utile nel suo lavoro di scultore. «Alle medie ci insegnavano artigianato, design e tecnologia. E così imparavamo anche attività manuali, come la saldatura. Sì, è curioso: non c’erano più fabbriche, ma continuavano a prepararci per diventare un operaio metallurgico o meccanico. Manualità che mi è servita per fare altro, è vero. Mai io avevo già deciso da bambino, a sei anni, che sarei stato un artista. E non ho mai cambiato idea. Ancora oggi non riesco a capire come ne sia venuto fuori, nonostante l’alcol e le droghe. Andavamo in classe ubriachi; e in tanti sniffavano perfino la colla. La mia scuola è stata data alle fiamme quattro volte. Ogni volta tornavamo nelle aule più o meno agibili, coi banchi anneriti, i soffitti mezzi bruciati. Poi, il quarto incendio è stato definitivo: l’istituto è stato chiuso. Me ne sono andato. Londra, poi Amsterdam e Bruxelles, dove ho fatto la fame. Infine la fuga oltreoceano».
Perché Los Angeles e non New York? In fondo si dice che gli artisti, come i vampiri, vanno dove sono i loro simili. E New York è la capitale degli artisti. «Questa storia dei vampiri (ridacchia, nda) è verissima. Soprattutto per uno come me che ama lavorare di notte. Ma ci sono molti vampiri anche a Los Angeles, grandi scultori come Paul McCarthy, un maestro e un amico.
Houseago è diventato celebre dopo il 2008, scoperto da alcuni ricchi collezionisti: un figlio del proletariato tra miliardari. «È strano, sì. Nel mio intimo sono quello di allora. Ma sono anche un artista e ho imparato a vivere nel mercato. C’è una classe però che detesto: il ceto medio. Privo di creatività, interessato solo a stendere una ragnatela di restrizioni per non far emergere gli altri dal basso. Questa, almeno, è stata la mia esperienza in Inghilterra. I ricchi mentalmente sono molto più aperti. Ovviamente, poi, i problemi sociali sono altri. Ma per me Steven Cohen è un collezionista sempre disponibile quando gli chiedo di prestarmi un’opera da mandare a una mostra, mentre Francois Pinault mi ha consentito di realizzare un sogno: una mia opera nel cuore di Venezia (a Punta della Dogana, ndr)».