Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 5/6/2013, 5 giugno 2013
STORIA DEL RAGAZZO MORTO D’INGIUSTIZIA OGGI LA SENTENZA
In mancanza di pietà, il detenuto Stefano Cucchi si diede l’estrema unzione da solo. Chiese una Bibbia, a un passo dalla sua morte, dopo 5 giorni di calvario, in una cella chiusa dell’Ospedale Sandro Pertini. Il catetere intasato. La vescica piegata da un litro e mezzo d’acqua. Le lesioni addominali. La frattura di due vertebre. L’impossibilità di stare in piedi. Il dolore insostenibile. Il cuore che rallenta e si spegne alle 3 di notte del 22 ottobre 2009. Oggi a Rebibbia, vittime, carnefici e sopravvissuti si troveranno l’uno di fronte all’altro. I tre agenti della penitenziaria che il 16 ottobre di quasi quattro anni fa, in attesa dell’udienza di convalida per l’arresto, nei sotterranei di Piazzale Clodio, a Cucchi spaccarono la schiena a calci. I loro parenti, intercettati mentre ammettono che con la divisa addosso qualche pedata scappa e insultano la memoria di Stefano, un “tossico di merda”. I medici che lo lasciarono agonizzare nell’ultima stazione del Pertini per imperizia o peggio, mentre scriveva lettere disperate chiedendo aiuto. Ilaria, Giovanni e Rita. La sorella e i genitori di Stefano Cucchi che ora aspettano con una dignità che è diventata rabbia la sentenza della Corte d’assise su 12 persone implicate a vario titolo nel decesso di un geometra che voleva solo fare il pugile. Un peso-mosca nato nel ’78 e schiacciato a 31 anni dalle conseguenze del destino.
L’inizio del calvario
Un arresto il 15 sera, per modesta detenzione di hashish e cocaina. L’arresto cardiaco il 22. In mezzo, una discesa agli inferi. Al principio sembra tutto rimediabile. Cucchi ha la forza di scherzare con il comandante della stazione Appia, Mandolini, che mentre lo scorta in caserma, collega la magrezza all’uso della droga: “Io non sono secco, è lei che è grasso”. Lo descrivono “gentile, “educato”, con l’attenzione alle cose che di lì a poco saranno secondarie: “Che me devo toglie’ il giacchetto? L’ho pagato 4 piotte”. L’illusione che magari, perché no, i genitori, due brave persone come non ne trovi più, verranno a saperlo e lo perdoneranno ancora. È l’unica cosa che gli importi. Non deludere la famiglia, ora in piedi, nel cuore della notte, con un mandato di perquisizione sotto gli occhi e Stefano a Tor Sapienza, “ospite” dei Carabinieri, in attesa dell’alba e del trasferimento in tribunale. A Tor Sapienza un materasso non c’è. Sul tavolo di formica fa freddo. Gli appuntati: “anche se non era di nostra competenza” specificano, gli cercano le coperte e gli parlano dallo spioncino. La porta non si apre a meno di “un’esigenza palese”. Cucchi si intabarra, dorme poco e male. Forse finisce tra poco, pensa. Forse lo mandano a casa domani, dicono i Cc a madre e padre. Invece sotto le insegne rassicuranti della Repubblica, a Piazzale Clodio, Stefano atterra in un campo di guerra.
La memoria
Ilaria Cucchi ha letto le 244 pagine di memoria che i due avvocati di Ferrara Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, già precisi metronomi dei depistaggi del caso Aldrovandi, hanno consegnato alla Corte come duraturo manifesto di omissioni, incongruenze e amnesie. Un atto d’accusa durissimo che smonta la natura stessa del processo. “Alterata” secondo i legali, dall’indolenza cognitiva dei periti nominati dalla Corte. Errori, sviste, protagonismi. Esperti capaci di autopromuovere la loro azione a processo ancora non concluso in qualche consesso milanese o intervenire in dibattimento attaccando le deposizioni dei teste, ma inabili a scorgere sul corpo di Cucchi quelle fratture in zona lombare già certificate con certezza dai referti. Ossa rotte, scrivono Anselmo e Pisa, facilmente individuabili dalla sola lettura delle carte. Riscontrate dai medici del Fatebenefratelli in occasione delle due visite a Cucchi. Ignorate perché secondo i due Pm Barba e Loy, le botte subìte dal ragazzo non furono neanche concausa del decesso e Stefano morì di fame e sete. Di solito servono mesi. A Cucchi sarebbe capitato dopo soli 7 giorni di detenzione, anche se persino Iapichino, il perito della Corte presieduta da Evelina Canale, concede che è “un’ipotesi dura da sostenere”. La memoria Anselmo-Pisa ha il coraggio di non angelicare la vittima e possiede la forza incontestabile dei rilievi fattuali. Periti che dimostrano di non aver studiato gli atti, agenti che non ricordano, sanitari che quando Cucchi ha ancora parametri vitali tali da salvarlo non si preoccupano di farlo ricoverare in terapia intensiva. La cortina di fumo di ogni omicidio di Stato. La colpevole negligenza di medici che in presenza di una conclamata brachicardia, avrebbero dovuto provvedere a un costante monitoraggio del cuore.
Fantasiose teorie sulla morte
Invece Cucchi fu abbandonato a se stesso. Alle sue 42 pulsazioni. All’impossibilità di pisciare. Bastonato a sangue alla prima richiesta d’aiuto. Trattato come un lamentoso rompicoglioni da vivo. E come un Frankenstein da morto, con fantasiose spiegazioni della morte che vanno dal colpo di frusta sacrale, alla migrazione del trauma dal basso verso l’alto che sfida la legge di gravità e della decenza. Qualunque cosa la Corte decida, in un processo in cui Ilaria e la sua famiglia si sono sempre sentiti “imputati”, non restituirà equità. I Cucchi, in indignato dissenso dai due pm che hanno definito Stefano e il suo comportamento “arrogante”, “maleducato” e “cafone”, si augurano che la controinchiesta dei loro avvocati, in cui la contraddizione tra i periti del giudice sulle cause del decesso sfiora il paradosso, serva a definire una responsabilità e una rilettura più onesta della vicenda. Per Stefano, il ragazzo che andava in palestra, con la droga aveva più di qualche problema e che non meritava l’ennesimo oltraggio, Ilaria cerca un impossibile perdono. Una tregua alle sofferenze, ai dubbi e alle calunnie. Il fratello, dopo 7 giorni di carcere, pestaggi, diffuse sordità, e inutili andirivieni tra lettighe, buioli e ospedali simili a campi profughi, la trovò nella morte. Prodotto di una routine burocratica e violenta. Di un fermo che si tramuta in tragedia. Il cittadino in attesa di giudizio Stefano Cucchi che in galera non è mai stato, inizia a morire il 16 ottobre 2009, brutalmente picchiato dai tre agenti che lo hanno in custodia, in un corridoio illuminato dal neon, appoggiato in una cella lurida in cui i messaggi d’amore sul muro restituiscono provvisorietà, paura e nostalgia di casa. Cucchi deve aver provato la trinità delle sensazioni. Alla deriva, come un rifiuto. Preso a calci, interrogato subito dopo in stato di confusa soggezione: “Sono Cucchi Stefano, scusatemi non mi sento tanto bene”, tradotto in galera.
La fine
Debole e sofferente, dimenticato su appuntite sedie di ferro per 4 ore, quando l’ematoma cresceva, lo strazio aumentava e la distanza tra prigione e ospedale Fatebenefratelli non superava i 10 minuti. Per non far sapere. Per non far vedere. Qualcuno (Samura Yaya, un cittadino del Mali, uno straniero, come nel caso Aldrovandi) vide il pestaggio e decise di non tacere. Gli agenti della penitenziaria, Minichini, Santantonio e Domenici, imputati di lesioni personali aggravate, rischiano solo due anni. Gli altri 9 imputati (Fierro, il responsabile del reparto protetto del Pertini, la dirigente Caponetto, i medici Bruno, Corbi, Di Carlo, Preite De Marchis e gli infermieri Flauto, Martelli e Pepe, accusati a vario titolo di reati come falso e abuso d’ufficio, abbandono di incapace, favoreggiamento e omissione di referto) pene che non superano i 7 anni. Stefano disse di essere caduto dalle scale, ma i detenuti all’ingresso di Regina Coeli ironizzarono: “Ha fatto il sacco in un incontro di boxe” e altri agenti, diversi da quelli del Tribunale, capirono: “Hai fatto un frontale contro un treno?”. Nelle ultime ore, alla volontaria Benedetta, Cucchi affidò il suo testamento. Raccomandandosi per la sorte del suo cagnolino, cercando dio nel luogo in cui gli uomini di buona volontà parevano essersi dileguati. “I servitori dello Stato mi hanno fatto questo” - disse - “Ne parlerò soltanto con il mio avvocato”. Credeva di essere ancora nel diritto e non nel sentiero in cui una volta entrati, si perde ogni speranza di riottenere comprensione, essere capiti, riveder le stelle.