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 2013  aprile 30 Martedì calendario

AL DI LÀ DEI CENTO

Nel freddo di una limpida mattina di gennaio Giuseppe Passarino percorre i tornanti di una strada di montagna in Calabria alla guida della sua monovolume metallizzata. Mentre guida tra uliveti e agrumeti carichi di arance in via di maturazione, sullo sfondo delle montagne innevate dell’Aspromonte, Passarino, genetista all’Università della Calabria, chiacchiera con un collega, il geriatra Berardelli. Sono diretti a Molochio, un paese che può vantare, su una popolazione di circa 2.000 abitanti, ben quattro centenari e altrettanti novantanovenni. Poco dopo i due scienziati incontrano Salvatore Caruso, 106 anni, che si scalda le vecchie ossa davanti al fuoco scoppiettante del camino della sua casa di periferia. Caruso, alias ’u raggiuneri, come lo chiamano in dialetto, sta leggendo un settimanale scandalistico. Su una copia incorniciata del suo certificato di nascita, in bella mostra sulla mensola del caminetto, figura la data del 2 novembre 1905.
Ai ricercatori Caruso dice di essere in buona salute, e in effetti la sua memoria sembra prodigiosamente intatta. Ricorda perfettamente la morte di suo padre, avvenuta nel 1913, e la grave malattia della madre e del fratello, che rischiarono di morire durante la pandemia influenzale del 1918-19. Racconta poi di essere stato dichiarato inabile al servizio militare per via di una doppia frattura a una gamba, riportata nel 1925 a causa di una caduta accidentale. Quando Berardelli gli chiede che cosa abbia fatto per essere così longevo, Caruso risponde con un sorriso: «No Bacco, no tabacco, no Venere». E aggiunge di essere cresciuto più che altro mangiando fichi e fagioli e di non aver quasi mai mangiato carne rossa.
Non molto diversa la storia di Domenico Romeo, 103 anni, che assicura di aver sempre mangiato «poco, ma di tutto», e di Maria Rosa Caruso, che di anni ne ha 104, e anche se non sta molto bene fa sentire ai ricercatori una versione vivace della canzone dedicata al santo patrono locale.
Durante il viaggio di ritorno verso il laboratorio di Cosenza, Berardelli osserva: « Spesso dicono che preferiscono mangiare solo frutta e verdura».
«Può darsi che non avessero altro da mangiare», risponde Passarino.
Che la dieta fosse il risultato di una libera scelta o delle rinunce imposte dalla povertà di una regione come la Calabria del primo Novecento, di fatto decenni di studi hanno accreditato l’idea che una dieta spartana possa allungare la vita. Di recente però questa tesi è stata confutata dalle ultime ricerche, i cui risultati tendono a mettere in discussione il presunto rapporto di causa-effetto tra longevità e regime alimentare ipocalorico.
In ogni caso, Giuseppe Passarino era più interessato ai centenari in quanto tali che alle loro abitudini alimentari. In un campo storicamente inquinato da affermazioni spesso iperboliche, nonché da discutibili offerte di elisir di lunga vita non meglio documentati, la scienza ha cominciato a studiare il fenomeno della longevità ricorrendo alla genomica, alla ricerca molecolare e soprattutto all’analisi dei dati raccolti in diverse piccole comunità geneticamente isolate, con l’obiettivo di approfondire sempre più la conoscenza delle malattie tipiche dell’invecchiamento e dei possibili modi per evitarle. In Calabria come in Ecuador, nelle isole Hawaii e nel Bronx le ricerche in corso stanno portando alla luce una serie di molecole e di vie metaboliche che alla fine potrebbero consentire a tutti di raggiungere un’età avanzata in buona salute, o addirittura in perfetta forma.

La ricerca di risposte genetiche ha indotto la comunità scientifica internazionale a interessarsi a persone come Nicolas Añazco, soprannominato pajarito (passerotto).
Per molti aspetti, Pajarito non è diverso da tanti altri adolescenti. Ama il calcio e i giochi al computer, e non è indifferente alle foto sexy del calendario appeso a una parete del soggiorno di casa sua, accanto a una copia incorniciata dell’Ultima cena. Vive con la famiglia in una casa di quattro stanze nella provincia rurale di El Oro, nel Sud dell’Ecuador, ai piedi delle Ande. Su questi terreni accidentati ma lussureggianti, in un paesaggio che fa pensare a Shangri-La, col suo mix esotico di piante di banane, cavolfiori e tamarillo, aiuta il padre a coltivare i campi di canna da zucchero che circondano la casa.
Pajarito, che oggi ha 17 anni, si è reso conto del motivo del suo soprannome fin dalla prima elementare. A sei anni, confrontandosi con i compagni di classe, ha preso tristemente coscienza della sua condizione. «Ho capito che sarei sempre rimasto più piccolo di loro». Molto più piccolo.
A causa di una mutazione recessiva di un singolo gene, Pajarito ha l’aspetto di un bambino di 8 anni, e la sua statura è rimasta ferma a un metro e 14 centimetri: molto inferiore a quella del fratello maggiore Ricardo, che ha un anno più di lui. La mutazione all’origine di questo disturbo della crescita, denominata sindrome di Laron, potrebbe però costituire al tempo stesso un fattore di protezione da molte malattie tipiche dell’età avanzata. Una notizia che è ormai di pubblico dominio persino in quest’area storicamente povera e geograficamente isolata. Un pomeriggio, Pajarito si ritrova con altri tre abitanti della regione affetti dalla sindrome di Laron nel retrobottega di un negozio di elettrodomestici per un’intervista. Freddy Salazar, 39 anni, alto un metro e 16 centimetri, ha fatto recentemente adattare la sua Chevy Forsa del 1997 con pedali rialzati e un sedile su misura per poter guardare dal finestrino e destreggiarsi al volante sui ripidi tornanti della sua città arroccata su una collina. Victor Rivera, 23 anni, poco più alto di Salazar, è stato presentato fin da bambino a numerosi convegni scientifici e ritratto a quattro anni in una celebre fotografia in cui tiene in mano una pannocchia di granturco che appare più grande del suo braccino. Quando gli chiedono se è al corrente delle ultime scoperte scientifiche sulla sua condizione, il più anziano e autorevole del gruppo, il quarantatreenne Luís Sánchez, ride di gusto gettando indietro la testa; gli altri gli fanno eco con le loro vocine stridule. «Ridiamo», spiega, «perché sappiamo di essere immuni da cancro e diabete».
È un’interpretazione un po’ eccessiva, ma riflette il crescente interesse dei ricercatori per lo studio dei genomi di gruppi di popolazione particolarmente longeve, in buone condizioni di salute: il loro isolamento geografico e culturale facilita il reperimento di indizi genetici sulla resistenza di questi soggetti alle malattie dell’età avanzata.
Uno di questi scienziati è il medico personale di Pajarito, Jaime Guevara, anche lui nato nella provincia di El Oro. Da sempre affascinato dal fenomeno, tipico della regione, dei "piccoletti", come li chiamavano prima che la loro condizione avesse un nome, incominciò a studiarli nel 1987. In un quarto di secolo ha identificato un centinaio di persone affette dalla mutazione di Laron tra le colline del sud dell’Ecuador. Tra i pazienti di Jaime Guevara c’è Meche Remero Robles, madre nubile quarantenne, alta circa un metro e 25, che vive con la figlia adolescente, Samantha, nella città di Piñas. «Ma guardatela!», esclama Guevara abbracciando Meche. «Con la massa corporea che si ritrova, dovrebbe avere senz’altro il diabete. E invece, neppure l’ombra!». Meche è obesa. Ma come tanti "piccoletti" come lei, sembra immune al diabete. «L’ho scoperto nel 1994», dice Guevara. «Ma allora nessuno mi dava retta».
Le cose incominciarono a cambiare nel 2005, quando il gerontologo Valter Longo, biologo cellulare alla University of Southern California, invitò Guevara a descrivere le proprie ricerche alla Usc. Già dieci anni prima Longo aveva cominciato ad armeggiare con i geni di microrganismi semplici, quali ad esempio i lieviti monocellulari, inducendo mutazioni che ne prolungavano la vita. Un fenomeno che si spiega in vari modi: alcune di queste cellule mutanti erano in grado di riparare il proprio DNA meglio di quelle normali; altre dimostravano una maggior capacità di minimizzare i danni provocati dagli ossidanti; altre ancora sviluppavano una maggior capacità di sventare i danni al DNA che spianano la strada al cancro nell’uomo.
Altri ricercatori lavoravano nello stesso campo. Nel 1996 Andrzej Bartke, uno scienziato della Southern Illinois University, prese in esame i geni della crescita nei topi. Ne risultò che i topi i cui ormoni della crescita erano stati bloccati rimanevano più piccoli. Ma la sorpresa fu che questi topolini vivevano più a lungo degli altri: la loro aspettativa di vita risultò superiore del 40 per cento circa. È possibile che analoghi processi siano riscontrabili negli esseri umani, e che certe anomalie genetiche possano rafforzare le difese contro le malattie dell’invecchiamento? L’endocrinologo israeliano Zvi Laron, che nel 1966 descrisse per la prima volta il tipo di nanismo definito da allora col suo nome, ha individuato nell’Europa centrale e orientale svariate decine di persone colpite da questa rara sindrome. Secondo l’ipotesi di Valter Longo, i pazienti di Guevara potrebbero rappresentare un esperimento della natura: una popolazione isolata con una condizione genetica legata alla longevità.
Secondo i ricercatori è possibile rintracciare le origini dei soggetti ecuadoriani affetti dalla sindrome di Laron sin dalla fine del Quattrocento. All’epoca molti ebrei emigrarono dalla Penisola Iberica verso il Nuovo mondo, portando con sé un bagaglio specifico: un errore genetico denominato mutazione E180 del gene recettore dell’ormone della crescita, che produce la molecola destinata a ricevere i segnali di crescita dell’organismo. Persone in cui è stato riscontrato lo stesso errore genetico si trovano in Israele.
Gli ebrei sefarditi che avevano abbandonato la Spagna dell’Inquisizione si stabilirono nelle piccole città e nei villaggi in un’area di 200 chilometri quadrati nelle campagne ecuadoriane, dove fino agli anni Ottanta c’erano poche strade, non c’erano telefoni né corrente elettrica. Nel corso dei secoli la mutazione, latente, si diffuse tra la popolazione, amplificata dall’isolamento e dai matrimoni tra consanguinei. «Teoricamente apparteniamo tutti a una stessa famiglia», dice Christian Asanza Reyes, economista a Balsas, la cui alta statura sembra smentire la mutazione che pure lui e la moglie hanno trasmesso a due dei loro tre figli.
La collaborazione tra Jaime Guevara e Valter Longo era iniziata nel 2006. Guevara aveva individuato, in una precisa area geografica, un gruppo omogeneo affetto da una mutazione genetica conosciuta, che apparentemente bloccava l’insorgenza del diabete e del cancro. Tra i componenti del gruppo con sindrome di Laron non si è trovato nessun caso di diabete, e un solo caso di tumore maligno, peraltro non letale.
In un gruppo di controllo di soggetti della stessa età, abitanti nella stessa area, i due ricercatori avevano invece riscontrato il 5 per cento di diabetici e 20 casi mortali di cancro. Da esperimenti successivi portati avanti all’Usc, sempre sotto la guida di Valter Longo, su campioni ematici prelevati da pazienti ecuadoriani, sembrava emergere un’azione protettiva delle cellule umane dai tumori maligni indotti in laboratorio. Qual era l’ingrediente magico di quel sangue? «Nessuno», assicura Longo.
In effetti di rilevante c’era non la presenza, ma l’assenza di qualcosa: precisamente di un ormone denominato IGF-1, sigla di insulin-like-growth factor (fattore di crescita insulino-simile). Secondo Longo, il motivo dell’azione protettiva del sangue andava ricercato nei livelli insolitamente bassi di IGF-1, potente regolatore del metabolismo, che svolge un ruolo importante nella crescita dei bambini, ma ha anche la proprietà di accelerare lo sviluppo del cancro. Controllando la presenza di uno specifico ormone nel sangue umano è possibile posticipare i malanni della vecchiaia? Probabilmente non è così semplice, ma tutte le ricerche sulla longevità a un certo punto trovano sulla propria strada una qualche connessione con l’IGF-1.
In Calabria, la caccia alle molecole nascoste e ai meccanismi che conferiscono longevità agli ultra-centenari è celata nell’Ufficio Anagrafe e Stato civile di Luzzi, tra i faldoni allineati sugli scaffali che ricoprono le pareti: i preziosi registri sono ordinati per annate, a partire dal 1866. Poco dopo l’unificazione dell’Italia nel 1861, il governo ordinò ai funzionari locali di ogni città o comune di registrare le nascite, i matrimoni e i decessi di tutti gli abitanti. I ricercatori dell’Università della Calabria hanno cominciato nel 1994 a esaminare le registrazioni in ciascuno dei 409 comuni della regione. Confrontando le storie delle famiglie e i dati fisiologici relativi alla vulnerabilità alle malattie degli individui, i ricercatori si sono posti alcune domande fondamentali. In che misura la longevità è determinata dal patrimonio genetico, e quanto incide l’ambiente? Come interagiscono tra loro questi fattori per favorire la longevità, o al contrario per accelerare il processo di invecchiamento? Per rispondere a questi interrogativi è indispensabile partire da dati demografici incontrovertibili. «Questo è il registro anagrafico del 1905», spiega Marco Giordano, uno dei giovani colleghi di Giuseppe Passarino, aprendo un voluminoso faldone verde. E indica un’annotazione scritta in corsivo, che registra la nascita di Francesco D’Amato, il 3 marzo 1905: il probando, cioè l’individuo con uno specifico fenotipo attraverso il quale viene identificata una famiglia con determinate caratteristiche genetiche, di un albero genealogico molto esteso. «È morto nel 2007 », nota Giordano. E spiega che grazie ai dati contenuti in quei registri è stato possibile ricostruire gli alberi genealogici delle famiglie.
Attraverso controlli incrociati tra i registri e una serie di schede molto dettagliate. Marco Giordano e altri due ricercatori, Alberto Montesanto e Cinzia Martino, hanno ricostruito per esteso gli alberi genealogici di 202 nonagenari e centenari calabresi.
La documentazione comprende, oltre ai fratelli e le sorelle dei centenari, anche i rispettivi coniugi: in tal modo il gruppo di Passarino ha potuto effettuare uno studio storico sulla longevità. «Abbiamo confrontato l’età raggiunta dai fratelli e dalle sorelle di D’Amato a quella dei loro congiunti, mogli o mariti: persone appartenenti alla stessa cultura, vissute nello stesso ambiente, che hanno assunto gli stessi cibi e farmaci, ma con un patrimonio genetico diverso». In un articolo del 2011 i ricercatori calabresi hanno riferito le loro conclusioni, almeno in parte sorprendenti. In linea con gli esiti di altre ricerche precedenti, la longevità dei parenti prossimi dei soggetti più che nonagenari è risultata superiore a quella della media. Ma il dato inatteso è che i fattori genetici chiamati in causa sembrano favorire soprattutto gli uomini.
I risultati della ricerca indicano che l’intricata combinazione di fattori genetici che favoriscono la longevità sia più complessa di quanto si pensasse. In passato, alcuni importanti studi effettuati in Europa avevano attribuito alle donne le maggiori probabilità di superare il secolo di vita, in una proporzione di 4 o 5 a uno rispetto agli uomini: una differenza che almeno in parte veniva attribuita a motivi genetici. Secondo le conclusioni della ricerca effettuata in Calabria, invece, il fattore genetico responsabile della longevità sembra prevalere negli individui di sesso maschile, mentre le donne avrebbero maggiori capacità di trarre vantaggio da fattori esterni, quali il regime alimentare e le cure mediche.

All’università della Calabria, nella semioscurità del corridoio da cui si accede allo studio di Passarino, sono allineati alcuni freezer: qui i ricercatori conservano le fiale con i campioni ematici prelevati dai loro soggetti centenari. Dal DNA contenuto in queste fiale e da campioni di tessuto i ricercatori hanno ricavato ulteriori informazioni. Hanno scoperto per esempio che gli ultranovantenni tendono a recare un allele (una variante di sequenza di un gene) che svolge un ruolo importante nella digestione e nelle preferenze alimentari. L’allele "regala" infatti alle persone un gusto per i cibi amari come i broccoli o le erbe di campo, ricchi di polifenoli, che favoriscono la salute cellulare; inoltre potenziano la capacità delle cellule intestinali di estrarre i nutrienti dal cibo durante la digestione.
«Abbiamo individuato», spiega Passarino, «i cinque o sei fattori che più influenzano la longevità: la risposta allo stress, il metabolismo dei nutrienti e il metabolismo in genere, cioè la gestione e l’uso dell’energia». Il suo gruppo sta esaminando l’influenza dei fattori ambientali, in senso lato, dall’alimentazione negli anni della crescita alla durata della frequenza scolastica, in grado di modificare l’attività dei geni e ridurre o allungare l’aspettativa di vita.

Un altro continente, un’altra isola genetica. È una giornata grigia nel Bronx, e in una stanza al terzo piano di uno stabile della Morris Park Avenue Jean Sisinni, 81 anni, passeggia su e giù, compitando con sforzo le lettere dell’alfabeto in ordine alterno: B, D, F, H e così via. Un sensore sulla sua fronte misura l’attività della corteccia prefrontale, e i sensori inseriti nel tappeto grigio su cui cammina registrano l’impatto, il punto preciso e la velocità di ogni passo.
«Se la cava benissimo!», esclama Roee Holtzer, neuropsicologo presso l’Albert Einstein College of Medicine, che ha portato avanti una serie di studi sulla funzione cerebrale e la mobilità negli anziani.
Negli ultimi anni, in collaborazione con il neurologo Joe Verghese, Holtzer ha dimostrato che l’attività di pensiero che un individuo è in grado di svolgere con la parte prefrontale del cervello mentre al tempo stesso parla e cammina è indicativa del rischio di cadute, perdita della mobilità o demenza. Questi esperimenti integrano una ricerca effettuata nello stesso istituto sotto la direzione di un medico israeliano: Nir Barzilai ha iniziato nel 1998 uno studio su tre centenari residenti a New York. Da allora il progetto Einstein si è esteso fino a includere più di 500 centenari abitanti a New York o nei dintorni. Sono tutti ebrei ashkenaziti provenienti dall’Europa centrale: una popolazione storicamente e culturalmente isolata. In questo gruppo omogeneo le ricerche hanno rivelato una serie di geni collegati alla longevità: in parte, gli stessi evidenziati dalle ricerche svolte in Italia.
Sulla scorta di una mole sempre crescente di dati, i ricercatori dell’istituto Einstein notarono che i centenari di origine ashkenazita presentavano livelli eccezionalmente alti di HDL, il colesterolo buono, e che nei loro figli questi livelli erano spesso ancora più elevati. Passarono quindi ad analizzare il DNA di un centinaio di geni che hanno un ruolo nel metabolismo del colesterolo. Ciò che trovarono fu una variante, uno specifico sottotipo genetico di un gene denominato CETP (Cholesteryl ester transfer protein), più comune tra i centenari.
Le ricerche sul CETP nei centenari hanno confermato le conclusioni di precedenti studi, secondo le quali questa particolare variante avrebbe un’azione protettiva contro le malattie cardiovascolari. E hanno rilevato inoltre che non solo i centenari e più in generale gli ebrei ashkenaziti, ma anche molti altri abitanti del Bronx che presentano questo sottotipo genetico ottengono migliori risultati nei test cognitivi come quello in cui si cammina parlando. Due grandi società farmaceutiche stanno testando farmaci in grado di riprodurre l’azione inibitoria del gene sul quantitativo di CETP nel sangue, osservata nella variante dei centenari.
Barzilai e i suoi colleghi hanno inoltre preso in esame i mitocondri, le centrali energetiche delle cellule, che hanno un ruolo cruciale nel metabolismo. I ricercatori hanno identificato varie proteine mitocondriali, cui hanno dato il nome di mitochine negli organismi di soggetti che hanno superato i 90 o i 100 anni. Una di queste molecole, denominata umanina, appare particolarmente promettente, almeno a quanto risulterebbe da alcuni esperimenti su animali. Barzilai assicura che basta una sola iniezione di umanina per normalizzare nel giro di poche ore il livello ematico di glucosio dei topi diabetici, e per eliminare i sintomi del diabete. Inoltre questa molecola previene l’arteriosclerosi e l’Alzheimer nei topi predisposti a queste malattie.
L’ampio e ambizioso programma dell’Istituto Einstein sulla longevità fa parte di un progetto di ricerca sulla genetica umana con prospettive altamente innovative. Negli ultimi 20 anni l’attenzione si è focalizzata soprattutto sui cosiddetti geni patogeni. «Tutti stanno cercando i geni del diabete, dell’obesità e così via», dice Barzilai. «Ma se non si riesce a trovarli è anche perché siamo dotati al tempo stesso di diversi tipi di geni protettivi». È su questi ultimi che oggi si concentra l’interesse di molti ricercatori. Sembra infatti che i geni protettivi siano in grado di neutralizzare o sconfiggere quelli patogeni o associati all’invecchiamento.
Uno dei geni che più hanno incuriosito i ricercatori è il FOXO3. I ricercatori dell’University of Hawaii hanno individuato alcune varianti di questo gene nei più longevi tra gli abitanti, americani di origine nipponica, dell’isola di Oahu. È la stessa pista di ricerca – quella dell’insulina IGF-1 – individuata negli studi sui lieviti e sui vermi, che ritroviamo anche nelle ricerche sugli ecuadoriani affetti dalla sindrome di Laron. Sono sempre i geni protettivi a costituire l’obiettivo di una ricerca presso lo Scripps Translational Science Institute di La Jolla, in California, dove Eric Topol e i suoi colleghi esaminano il DNA di un migliaio di anziani in buona salute, per i quali hanno coniato la definizione di wellderly, "benanziani": ultraottantenni esenti da disturbi cronici quali l’ipertensione, il diabete o le malattie coronariche, che non hanno mai avuto bisogno di assumere medicinali. «Deve pur esserci qualche mutazione genetica che spieghi perché questi individui sono protetti dai geni distruttivi coinvolti nel processo di invecchiamento», argomenta Eric Topoi, e aggiunge: «Abbiamo aperto la caccia!».
La gara per trovare le chiavi della longevità ha portato i ricercatori in un posto cui le ricerche attribuiscono sempre maggiore importanza nel processo di invecchiamento: l’utero materno. I ricercatori dell’Istituto Einstein ipotizzano infatti che il nostro processo di invecchiamento possa essere programmato fin dall’inizio della nostra vita, e forse addirittura nel periodo prenatale.
Per studiare più a fondo quest’ipotesi, Francine Einstein e John Greally hanno esaminato le mutazioni epigenetiche del DNA di cellule staminali dei cordoni ombelicali di bambini nati nel Bronx, per individuare le differenze tra neonati di tre diverse categorie di peso e dimensioni, stabilite in proporzione all’età gestazionale. I risultati indicano che il pattern dei marcatori del DNA nei neonati sottopeso o sovrappeso differisce in maniera significativa da quello che si riscontra nei normopeso.
Questi risultati si inseriscono in un nuovo, attualissimo campo della biologia, l’epigenetica, che studia i modi in cui le influenze ambientali possono indurre modificazioni chimiche nel DNA, causando nell’attività dei geni cambiamenti destinati a permanere negli individui per tutta la vita. Ecco la spiegazione di Barzilai: «Nell’utero si potrebbero verificare influenze sui meccanismi genetici che in qualche modo stabiliscono la durata della nostra vita». Potremmo allora arrivare a dire che il progenitore dell’anziano è il feto.
La grande mole di nuovi studi indica, se non altro, che le ricerche sulla longevità stanno portando il dibattito scientifico a un nuovo livello. Nell’ottobre 2011 il Premio Archon Genomics X ha dato il via a un concorso tra gruppi di ricercatori per il sequenziamento del DNA di «un centinaio di centenari» (e infatti il concorso ha preso il nome di «100 per 100»).
È improbabile però che la pista genetica spieghi da sola tutti i segreti della longevità. Gli esperti pensano che i recenti risultati sulle diete a basso contenuto calorico vadano presi con cautela. Gli esperimenti su 41 tipi di topi geneticamente diversi hanno dimostrato ad esempio che limitando la somministrazione di cibo si ottengono risultati contraddittori. Se è vero che metà circa degli animali così trattati è vissuta più a lungo, la vita dell’altra metà è durata meno della media dei topi alimentati normalmente. Nell’agosto scorso, i risultati di uno studio condotto per molti anni sui primati dal National Institute of Aging evidenziano che le scimmie costrette per 25 anni a un regime a basso contenuto calorico non ne hanno tratto alcun vantaggio in termini di longevità.
Dopo la visita ai centenari di Molochio, Giuseppe Passarino, guidando la sua auto sulla via del ritorno al laboratorio, riassume la situazione: «I geni non sono buoni né cattivi. Vanno considerati in rapporto alle fasi della vita. A conti fatti, probabilmente la longevità è legata ai geni per un 25 per cento. In parte dipende anche dall’ambiente; ma neppure i fattori ambientali bastano a dare una spiegazione completa. Non dimentichiamo però che anche il caso ha un ruolo».
Questa frase ci riporta a Molochio e a Salvatore Caruso, ancora robusto e vitale a 106 anni suonati. Grazie a una frattura a una gamba 88 anni fa, venne riformato dal servizio militare. L’unità della quale avrebbe dovuto far parte fu richiamata durante la Seconda guerra mondiale. «Li hanno spediti sul fronte russo. E neppure uno di loro è tornato», ha detto Caruso. Questo per ricordarci ancora una volta una semplice verità: indubbiamente la scoperta di molecole e meccanismi finora inesplorati potrebbe portare alla messa a punto di farmaci in grado di farci vivere più a lungo e in buona salute. Ma anche un po’ di fortuna non guasta.