Marco Bonarrigo, Corriere della Sera 06/06/2013, 6 giugno 2013
L’ULTIMA FRONTIERA DEL DOPING? UNA BOCCATA DI GAS TOSSICO
Niente pastiglie, fiale, siringhe o sacche da trasfusione. Solo un gas, inodore e incolore: monossido di carbonio inalato volontariamente con lo scopo di doparsi. Doping con una sostanza di cui di solito si parla per eventi tragici: innocenti uccisi da stufe difettose, suicidi negli abitacoli delle auto o nei garage.
Ora invece ci sarebbero ciclisti professionisti di alto livello che respirano monossido di carbonio per andare più forte. Lo denunciano, preoccupati, alcuni loro colleghi. Come, perché e con che risultati? Tecnica e sostanza non sono nelle liste dell’Agenzia Mondiale Antidoping (Wada). Quando gli chiediamo chiarimenti, il professor Walter Schmidt, direttore dell’Istituto di Medicina dello Sport alla Universitat Bayreuth, in Baviera, risponde prima con un lungo silenzio e poi con una domanda: «La vostra fonte è attendibile?». Poi questo studioso, che per la Wada ha sviluppato importanti test di controllo, chiarisce: «Da anni ipotizzavamo questa forma di doping — spiega Schmidt — ma abbiamo tenuto la notizia riservata temendo esperimenti pericolosi. Ora bisogna agire».
Tutto nasce nel 2009, quando la Wada sviluppa una tecnica quasi infallibile per smascherare il doping ematico, di qualunque natura: dalle trasfusioni all’Epo, anche in micro dosi. Si tratta di «pesare» l’emoglobina in circolo nel sangue dell’atleta. Il test è efficacissimo ma l’atleta, prima del prelievo, deve inalare per qualche minuto un’infinitesima quantità di monossido di carbonio per «preparare» il sangue. Comitati etici e federazioni alzano barricate: il test viene usato solo da centri indipendenti (come il Mapei Lab in Italia) e non riconosciuto come metodo ufficiale.
La scienza dell’antidoping si ferma, quella del doping no. «Qualcuno — spiega il professor Schmidt — ha scoperto che il monossido di carbonio, iniettato regolarmente nel sangue, crea un’apnea cellulare che spinge l’organismo a moltiplicare la produzione di globuli rossi». Invece di somministrargli Epo (proibita) o portare in alta montagna (con fatica e disagi) l’atleta per fargli respirare meno ossigeno, qui si «soffocano» direttamente i globuli rossi.
Ma il metodo funziona? E i pericoli? «Funziona bene — spiega Schmidt — con effetti equivalenti o maggiori di un soggiorno in altura. A dosi bassissime il gas è innocuo, ma se si perde il controllo si rischia la vita». Il costoso monossido puro (venduto in bombole) può essere acquistato solo da laboratori autorizzati e l’inserimento del gas negli inalatori non è uno scherzo: difficile fare da soli anche se il ciclismo ci ha abituato a fai-da-te da brivido.
Come smascherare chi bara? «Ogni manipolazione del sangue è doping — conclude Schmidt — e qui basta cercare la carbossiemoglobina con le stesse analisi cliniche che si fanno ai lavoratori a rischio di intossicazione. Il problema è medico-legale: i referti di un dopato sono simili a quelli di un fumatore o di chi fa sport in una città inquinata. I ciclisti professionisti non fumano e non pedalano nello smog: ma dimostrarlo in un tribunale è un altro paio di maniche».
Marco Bonarrigo