Guido Santevecchi, Corriere della Sera 06/06/2013, 6 giugno 2013
NAVI DA CROCIERA E AEREI SPIA: IL GRANDE GIOCO NEL PACIFICO —
Navi della Marina militare cinese sono state avvistate questa settimana all’interno delle acque della cosiddetta «Zona economica esclusiva» degli Stati Uniti. Si tratta di una fascia di oceano che si estende per 200 miglia nautiche. Naturalmente il diritto internazionale riconosce anche alla Cina continentale una zona altrettanto vasta di diritto esclusivo. Ma le navi e gli aerei di altri Paesi possono attraversare quei tratti di mare e cielo. Gli americani lo fanno da anni e Pechino ha sempre contestato il loro diritto al libero passaggio nelle sue 200 miglia di esclusiva: ci sono stati anche incontri ravvicinati drammatici, come quando nel 2001 un jet con la bandiera rossa entrò in collisione con un aereo spia Usa al largo dell’isola di Hainan. Un aviatore cinese morì, l’apparecchio americano fu costretto ad atterrare e l’equipaggio fu trattenuto in Cina.
Ora, proprio nella settimana del primo incontro da presidenti tra Xi Jinping e Barack Obama, la flotta cinese entra a sua volta nella «Exclusive Economic Zone» Usa, dalla parte dell’isola di Guam che è anche una grande base aeronavale americana. Una provocazione? La Us Navy se l’è cavata diplomaticamente: «La vediamo come un atto di reciprocità e diamo il benvenuto alle navi cinesi». Come dire che d’ora in poi la flotta americana si aspetta di poter navigare liberamente nella zona cinese. Ma resta il dubbio che mostrare la bandiera di fronte a Guam sia stato un segnale di forza, un monito. Nel Pacifico da molti mesi è in corso una sorta di Grande Gioco intorno a isole così piccole da essere solo dei puntini sulle mappe, ma considerate «strategiche per gli interessi nazionali» dalla Cina e da altre potenze regionali, dal Giappone alle Filippine, al Vietnam, a Taiwan e alla Malesia.
Il caso più caldo è nel Mar Cinese Orientale per le isole che Tokyo chiama Senkaku e Pechino Diaoyu, poco più che scogli disabitati. Sono territorio giapponese, ma i cinesi le rivendicano e quasi le assediano con le loro unità navali: c’è stato anche un comandante di Pechino che ha fatto accendere il radar di puntamento su una nave di Tokyo, un’azione che per poco non ha portato al fuoco. La questione è potenzialmente aggravata dal trattato Usa-Giappone che prevederebbe l’intervento americano al fianco dell’alleato in caso di attacco. Per accrescere la pressione, gli storici cinesi sono andati a riaprire un capitolo di rivendicazione anche per Okinawa, dove il Pentagono è attestato da settant’anni.
Altri fatti gravi si sono svolti nel Mar Cinese Meridionale tra Taiwan (considerata da Pechino un governatorato ribelle) e le Filippine: la guardia costiera di Manila a maggio ha aperto il fuoco su pescatori taiwanesi, uccidendone uno. Taipei ha inviato una flottiglia di fronte a Batan. Ancora più a sud, l’arcipelago delle Spratly, apparentemente ricco di petrolio nei suoi fondali, è conteso tra Cina, Brunei, Taiwan, Filippine, Vietnam e Malesia. Un po’ più a nord-ovest, Pechino e Hanoi si disputano le Isole Paracel. Dimostrando grande fantasia, i cinesi hanno organizzato crociere turistiche intorno a Paracel e a Spratly: oltre a pagare 9 mila yuan (110 euro) per il tour di 4 giorni, i «turisti» hanno dovuto presentare certificato medico per provare di essere «in buona salute». Si è saputo che tutti i croceristi erano dipendenti governativi.
Non si tratta solo di vecchie ruggini asiatiche: su quelle rotte passa il 50 per cento del petrolio mondiale. La Cina è il primo consumatore di energia al mondo ed è dipendente dalle importazioni. Tanto da aver inviato le sue grandi società petrolifere statali alla conquista di giacimenti in zone pericolose e instabili, dall’Iraq alla Libia. «In realtà, in questo momento tutte le rotte del greggio diretto verso la Cina sono pattugliate dalla flotta americana, per questo Pechino non cederà mai nella contesa per le isole del suo mare», dice al Corriere Michael Dunne, guru dei rapporti commerciali Usa-Cina.
Con Obama la Casa Bianca ha annunciato una nuova revisione strategica: «Pivot to Asia». Simboli di questa centralità sono gli accordi commerciali di Washington con gli alleati asiatici e la decisione di riposizionare il 60 per cento delle forze aeronavali Usa nella regione, inviando nuovi contingenti in Australia e nelle Filippine. Per Pechino questa politica pacifica ha un solo significato: contenimento e accerchiamento. Che cosa ci si può aspettare dal vertice Obama-Xi? I temi previsti sono lo spionaggio cybernetico, la crisi coreana e quella siriana, le dispute commerciali, il protezionismo, i diritti umani. Henry Kissinger è appena tornato a Pechino per l’ennesima volta, dopo aver aperto la via delle relazioni diplomatiche ai tempi di Richard Nixon. E in un convegno a porte chiuse in cui si discuteva proprio di risorse energetiche, ha ricordato il suo primo incontro segreto con Mao Zedong, nel 1971. Il superconsigliere della Casa Bianca si era preparato una serie di espressioni nel linguaggio fiorito della diplomazia, per illustrare tutti gli interessi comuni che avrebbero potuto portare a un armonioso futuro di cooperazione. Mao ascoltò e rispose: «Bene, ora metta da parte questo mucchio di sciocchezze e magari discutiamo solo di un paio di cose».
Guido Santevecchi