Sergio Romano, Corriere della Sera 06/06/2013, 6 giugno 2013
SINDROME DA EGEMONIA: UNA NUOVA CARTAGINE?
Quando decise di resuscitare la Società delle nazioni, nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale, Franklin D. Roosevelt volle che alla Cina venisse assegnato un seggio permanente e il diritto di veto. Quale Cina? Alla fine del conflitto l’«Impero di Mezzo» precipitò in una guerra civile fra le due forze — i nazionalisti del Kuomintang e il Partito comunista di Mao — che negli anni precedenti avevano separatamente combattuto contro i giapponesi. Ma non appena Mao, nel 1949, proclamò da Pechino la nascita della Repubblica popolare, gli Stati Uniti scelsero i nazionalisti di Chiang Kai-shek, fuggiti in quella che era negli atlanti l’isola di Formosa. Da allora la Cina divenne per l’America ciò che Cartagine aveva rappresentato per Roma dal 241 al 146 avanti Cristo. Se il generale McArthur, durante la guerra di Corea, non fosse stato tenuto a freno dal presidente Truman, i bombardieri americani avrebbero gettato bombe nucleari sul territorio cinese. Tutto cambiò negli anni Settanta quando Richard Nixon e Henry Kissinger, presidente e segretario di Stato, approfittarono del peggioramento dei rapporti cino-sovietici e resero il mondo, con due memorabili viaggi a Pechino, un po’ meno bipolare di quanto fosse stato sino a quel momento. Qualcuno ha forse dimenticato che il migliore alleato del regime comunista cinese, dopo la repressione dei moti di piazza Tienanmen, fu George H.W. Bush, da qualche mese presidente degli Stati Uniti?
Oggi il quadro è confuso e contraddittorio. Gli Stati Uniti sono ancora, nonostante le zoppicanti vittorie militari dell’ultimo decennio, la prima potenza militare del mondo e presidiano con basi e flotte tutti i mari dell’Asia, dall’India alla California. Ma una somma astronomica di cartelle del debito pubblico americano è depositata nei caveaux della Banca centrale cinese e i due Paesi sono rispettivamente il più grande debitore e il più grande creditore del pianeta. Non basta. Gli Stati Uniti (classe politica e società) sono divisi in due campi: quelli che credono nell’utilità di un rapporto pragmatico, da cui entrambi possano trarre qualche vantaggio, e quelli per cui la Cina è semplicemente «delenda», come il falco Catone diceva di Cartagine negli anni in cui Roma e i fenici si disputavano il dominio del Mediterraneo. I cinesi parlano meno, ma non credo che i pensieri di Pechino siano molto diversi da quelli di Washington. Siamo ancora una volta di fronte, quindi, a un fenomeno molto noto agli storici che potremmo definire la sindrome dell’egemonia. Si manifesta ogniqualvolta un Paese giunge alla conclusione di non potere continuare a esistere se non avrà prima tolto di mezzo un nemico, vero o fittizio, che gli impedisce di sviluppare tutte le sue potenzialità. Roma tirò un sospiro di sollievo soltanto quando Scipione conquistò Cartagine, uccise quasi tutti i suoi abitanti e vendette sul mercato degli schiavi le donne e i bambini (50 mila) che erano usciti dalla città prima dell’ultimo attacco. Se la corsa al potere e i motivi di una guerra fossero razionali, le soluzioni concordate sarebbero sempre possibili. Ma la sindrome dell’egemonia è una velenosa combinazione di ambizioni, paura, diffidenza, senso di superiorità. Quando l’Invencible Armada di Filippo II (130 navi e 24 mila uomini) salpò verso le coste inglesi nel 1588, la guerra sembrò provocata da fattori religiosi (cattolici gli spagnoli, scismatici e protestanti gli inglesi). Ma qualche anno dopo, quando l’Inghilterra decise di mettere in riga le ambiziose Province Unite dei Paesi Bassi, nel 1652, la comune fede protestante non impedì lo scontro. Lo stesso accadde durante la guerra dei Trent’anni quando la Francia, per strappare agli Asburgo il dominio del continente, non esitò a fare fronte comune con la Svezia e i principi protestanti.
Quale era il disegno strategico di Napoleone? Diffondere in Europa i principi della Rivoluzione francese? Li aveva traditi con il colpo di Stato del 18 brumaio e, pochi anni dopo, con l’ascesa al trono imperiale. Liberare i popoli dai re tiranni? Li sostituì con fratelli, sorelle, amici e cognati. Da un punto di vista strettamente politico non v’è grande differenza fra le ambizioni egemoniche degli zar di Russia e quelle di Stalin. Il meraviglioso georgiano riconquistò tutti i territori perduti durante la Prima e la Seconda guerra mondiale: le repubbliche del Baltico, l’Ucraina, il Caucaso, l’Asia centrale, la Siberia.
La Germania è un caso a sé, particolarmente interessante. La sua unificazione, nella seconda metà dell’Ottocento coincise con una straordinaria esplosione di studi umanistici, ricerche scientifiche, organizzazione militare e industriale. Bismarck cercò di spiegare ai suoi connazionali che un tale capitale andava amministrato con prudenza e saggezza. Ma Guglielmo II e una parte della società del secondo Reich credettero che la Germania avesse il diritto di affermare la propria superiorità e di sferrare un «Assalto al potere mondiale», come uno storico tedesco, Fritz Fischer, intitolò il suo libro sulle cause della Grande guerra. Perdette la partita, fu umiliata a Versailles e cadde nelle mani di un anti-Bismarck, Adolf Hitler, che tentò nuovamente l’avventura con stravaganti argomenti pseudo-filosofici. Dopo due clamorosi fallimenti, la Germania non ha rinunciato alla ricerca dell’egemonia, ma ha deciso che la sola per cui valesse la pena di battersi fosse quella economica nell’ambito di un progetto che avrebbe eliminato le ambizioni egemoniche dei suoi vecchi nemici. È una versione moderna della politica che Bismarck raccomandava al suo Paese. Credo che anche gli Stati Uniti e la Cina abbiano oggi bisogno di un Bismarck.
Sergio Romano