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 2013  giugno 06 Giovedì calendario

ERDOGAN E LA TRAPPOLA DELL’ISLAMISMO MORBIDO

Non esistono solo primavere arabe. Da alcuni giorni esiste e dilaga anche un precoce e tempestoso autunno turco, con le folle che, partendo dalla piazza Taksim di Istanbul, manifestano con contagiosa impetuosità contro la distruzione del parco Gezi. Il parco è così diventato il simbolo di una laicità leggendaria che il premier Recep Tayyip Erdogan, ritenuto da tanti un islamico moderato, vorrebbe poco a poco «liberare» dal mantello secolare imposto con rigore novanta anni fa alla Turchia musulmana dal «padre dei turchi»: Kemal Atatürk Mustafa.
Alto ufficiale del temibile seppur sconfitto esercito ottomano, Atatürk, dopo il crollo del 1918 e la fine dell’impero, depose l’ultimo sultano e ristabilì l’unità mononazionale di una Turchia amputata e ormai ridotta alla sola Anatolia.
La Turchia geografica che vediamo sulla carta è, territorialmente, sempre quella della repubblica postimperiale fondata nel 1923, con pugno di ferro, dal grande occidentalista Kemal. Egli, quando non indossava l’uniforme, amava sottolineare questa sua occidentalità europea vestendo un frac elegantissimo; ne ricordo tuttora i gemelli dorati, il cravattino immacolato, le ghette di felpa grigia, conservati come reliquie sacre nella trasparente penombra di un mausoleo di Istanbul. Spirava da quei pochi vestiari ricercati, spazzolati, senza granello di polvere, l’aura di una venerazione assoluta. Quasi metafisica.
Il vivente Erdogan, in parte apprezzato da molti, ma in parte tollerato con sospetto da altrettanti, di sicuro non può sperare di accogliere oggi neanche un terzo di una simile venerazione nazionale. La Turchia moderna non dimentica di dovere tanto, quasi tutto, al pervasivo autoritarismo secolare del grande «padre» in frac ostile alle leggi e ai costumi dell’islamismo. La sharìa esulava dalla sua ottica. Eletto presidente della nuova Repubblica, possiamo ben dire che Atatürk la costruì sbarazzandola dei lacci e lacciuoli ottomani e rovesciandola come un calzino. Abolì il califfato, laicizzò lo Stato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, adottò l’alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale. Una modernizzazione a tappe forzate, spesso spietate, che molti non a torto chiamarono rivoluzione. Non furono pochi i fondamentalisti a perdere, oltreché il fez, anche la testa. Il «padre dei turchi» era insomma un tiranno illuminato che non andava troppo per il sottile.
In diversi saggi politologici si usa descrivere la modernizzazione della Turchia come una parabola che, scavalcando effimeri putsch militari, sarebbe nell’insieme consequenziale. La Turchia, partendo da Atatürk e dal kemalismo a volte golpista delle forze armate (Stato nello Stato), giungerebbe oggi con una certa logica imprevista fino a Tayyip Erdogan: un islamico moderato paragonato a una sorta di «De Gasperi turco». Secondo il mio giudizio, nulla di più opinabile. Erdogan non è un De Gasperi da moschea, né il partito Akp («Giustizia e Sviluppo») da lui ideato è una versione esotica e velata della Democrazia cristiana. Egli, a ben scrutarne la biografia, le mosse, le pulsioni pubbliche e meno pubbliche, è un islamista «moderato» a doppio fondo, sempre pronto sia alla ritirata tranquillizzante sia allo scatto inquietante. Diversi turchi laicizzanti, riferendosi al suo islamismo radicale ma velato, dicono: «Non possiamo vivere come in fondo vorrebbe Tayyip: facendo tre figli, non bevendo alcol, non fumando. Il messaggio che desideriamo lanciare dal parco Gezi è che ciascuno sia libero di fare ciò che meglio risponde alla sua personalità».
In breve, il pericolo per la Turchia che vorrebbe avvicinarsi all’Europa, e di cui l’Europa diffida, non è certo il passato aspro alla Atatürk. Forse non ci si pensa fino in fondo. Ma il vero rischio, la separazione prolungata della Turchia dall’Europa e viceversa, è forse principalmente nella trappola narcotica dell’islamismo alla Erdogan: islamismo morbido che promette a parole dialoghi, intese, compromessi, affari, coesistenze intercontinentali, nel momento stesso in cui nessuno sa più dove Ankara vuole andare e con chi veramente vuole stare. Certamente il futuro della Turchia si profila economicamente e politicamente sempre più incisivo e promettente: una grande nazione emergente che viene quasi subito dopo il Bric di Brasile, Russia, India e Cina. Ma, circa il suo rapporto con l’Europa, non s’intravede purtroppo granché: in definitiva, più lontananze opache che vicinanze chiare.