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 2013  giugno 01 Sabato calendario

L’ITALIA È UN VERO AFFARE

Francesco ha 36 anni e da tre è al soldo del figlio di uno sceicco. Di base sta negli Emirati Arabi, ma per lavoro gira l’Italia in lungo e largo. È un agente molto speciale, non uno 007 ma un buyer: il suo compito è comprare, comprare, comprare. «Sbarco a Roma, trovo un palazzo in vendita nel centro storico, prendo le informazioni che servono, tratto sul prezzo, mando una mail con i dettagli e avviso il mio headquarter ad Abu Dhabi. Lo stesso farò con un terreno in Toscana, un albergo sul Lago di Garda o un lotto nel porto di Genova. La maggior parte delle volte l’affare si conclude in breve tempo, il braccio destro riferisce al capo i termini e mi comunica la risposta: “buy it”, compralo, o “drop it”, lascia perdere, ritira l’offerta. E io vado in cerca del prossimo business». C’è un’Italia in vendita: attrattiva, appetibile, che passa (più o meno silenziosamente) di mano in mano. Soprattutto in mani straniere. Affari clamorosi, che riempiono le pagine dei giornali, e altri, come quelli che conclude Francesco, che si chiudono senza riflettori, sotto casa nostra. In termini assoluti si parla oggi di circa 30-35 miliardi di euro di capitali stranieri che ogni anno entrano nel nostro Paese, che a livello mondiale (secondo il rapporto annuale stilato dall’apposita agenzia delle Nazioni Unite) si traducono in un 2,1% dello stock totale di investimenti realizzati al di fuori dei confini nazionali dell’investitore (o della società di investimenti). Una sorta di giro del mondo dell’Italia ready-to-buy. Perché per i miliardari, soprattutto dei Brics e degli altri Paesi emergenti, stiamo diventando un’interessante terra di conquista.

Ma di che compravendite parliamo? Tra le più eclatanti quelle dell’emiro al-Thani e della sua Qatar Holding (vedi box a pag. 46): l’ultima è l’acquisto del 40% del quartiere di Porta Nuova, a Milano, dopo che per 700 milioni di euro un’altra delle sue società aveva conquistato il Valentino Fashion Group. Fra i thailandesi ha fatto notizia la famiglia Chirathivat, che con la sua Central Retail Corporation ha preso per 260 milioni di euro un simbolo dell’italian lifestyle come la Rinascente. Fra i cinesi, i cui investimenti in Italia sono quintuplicati negli ultimi anni (oggi oltre 700 milioni di euro), ecco lo Shandong Heavy Industry che ha acquisito il 75% degli yacht di lusso del Gruppo Ferretti. Per gli indiani, la Tata che con la sua Holding ha messo l’occhio sulla Ferrari di Maranello (e con una consociata per ora le fornisce supporto ingegneristico) o la Mahindra & Mahindra, che ha acquisito un’azienda di design per auto (e aperto una filiale a pochi passi dal Lingotto, a Torino). Dal Brasile l’interesse per partnership di tipo commerciale e vari investimenti immobiliari, per i russi l’attivismo di società minerarie o manifatturiere come Gazprom, Lukoil, Severstal (una delle prime a fare shopping in Italia con la Lucchini, settore acciaio) e le promesse del vicepremier di Mosca, Arkady Dvorkovich: «Gli investimenti russi in Italia aumenteranno nel breve periodo e sarà profittevole per entrambi».

«È la globalizzazione, bellezza, verrebbe da dire. E stavolta davvero possiamo vantare una competitività italica», dice Fabrizio Onida, professore di economia internazionale all’Università Bocconi e Presidente del Cespri (Centro di ricerca sui processi di innovazione e internazionalizzazione). «Perché siamo appetibili? Innanzitutto per la dimensione del mercato: quello italiano conta più di quanto pensiamo e senza investimenti in loco sappiamo che è difficile fare business. Secondo, perché disponiamo di un capitale umano di altissima qualità: chi compra in Italia sa che avrà a sua disposizione competenze tecniche e scientifiche (i nostri ingegneri per esempio sono considerati al primo posto in Europa) e grandissime abilità di problem solving. Infine, per un’elevata qualità anche dell’indotto che ruota intorno all’azienda italiana che eventualmente si compra: i fornitori, anche medi o piccoli, hanno buona flessibilità e un valore aggiunto che il mercato premia: la capacità di personalizzare, “customizzare” il prodotto». Certo, i capitali stranieri potrebbero essere tre volte superiori senza i nostri noti limiti. «È il solito cahiers de doléances italiano», continua Onida. «O meglio: sono le nostre palle al piede. La scarsa qualità delle istituzioni, la normativa opaca e innaffidabile, i tempi di risposta biblici, la burocrazia miope, il fisco. La corruzione? Sì, ma quella è diffusa anche altrove.

Comunque in Italia i settori attrattivi non mancano. La moda, lo sappiamo, continuerà a stimolare gli appetiti. Chimica e farmaceutica sono già per il 70% in mano a stranieri. Metallurgia, automazione, meccanica applicata sono fiori all’occhiello che interessanno molti. Aggiungerei la logistica: i nostri porti, in particolare». C’è soprattutto un settore a cui bisogna guardare per il futuro: quello turistico. Qualcosa già si muove, ma le previsioni degli analisti non lasciano dubbi: catene alberghiere, ristorazione, persino pezzi delle nostre coste saranno il prossimo Eldorado. I soliti qatarini hanno comprato resort in Costa Smeralda, i cinesi sono interessati a gestire l’accoglienza turistica dei grandi flussi in arrivo, gli indiani guardano agli hotel di superlusso. Sarà il turismo degli asiatici, il nuovo boom, quindi c’è chi fiuta l’affare e già si muove. «Solo nell’ultimo trimestre i nostri passaggi aerei su Roma sono stati 3700: il binomio itinerario culturale più shopping negli outlet attirerà sempre più gli asiatici», conferma Armando Muccifora, direttore commerciale Thai Airways per Italia, Sud-Est Europa e Mediterraneo. «Aggiungeremo un volo diretto in più per Milano e uno per Roma, portando a nove i collegamenti settimanali da Bangkok e dal cuore dell’Asia. Thailandia e Malesia sono in crescita, ma soprattutto gli arrivi dalla Cina registreranno numeri record. Nel frattempo l’Abenomics (la politica di sostegno alla crescita che prende il nome dal premier di Tokyo, ndr) sta facendo ripartire anche il Sol Levante e quindi torneranno pure i giapponesi. Purtroppo, però, spesso le nostre strutture ricettive non sono all’altezza delle grandi potenzialità che abbiamo». Si capisce così perché i capitali stranieri fiutano il business e si preparano prima di noi.