Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

LA FORZA DI UNA DIAGNOSI

Applaudire il governatore della Banca d’Italia che ci ricorda i problemi irrisolti del Paese è una cosa che facciamo da molti anni. Sono solo «prediche inutili» (come le chiamava Luigi Einaudi), oppure il «linguaggio della verità», citato anche dal presidente della Repubblica nel suo discorso di rielezione, può ancora esserci utile? Poiché non torneremo a crescere «per sbaglio», non serve sperare che qualche miracolo ci aiuti. Giacomo Vaciago
Ma dovremmo almeno smetterla di continuare col difetto nazionale per eccellenza che già Cipolla sottolineava quando spiegando il declino dell’Italia nel Seicento (cioè 400 anni fa!) ricordava che "tradizionalmente gli italiani riversano le colpe delle loro sventure sugli altri". La verità è che quell’andare indietro di un Paese che, all’inizio del Seicento, era uno dei più sviluppati d’Europa, fu dovuto alla perduta competitività (crescendo i salari più della produttività) e a un carico fiscale insopportabile. Due colpe ambedue molto gravi per un Paese che oggi come allora può crescere solo se export-led. La diagnosi che riguarda il nostro declino di allora è ancora utile per mettere a fuoco quella che Draghi chiamava la mancata modernizzazione del Paese. In un’economia globale che da anni corre sempre più veloce, noi non possiamo più accontentarci dei nostri successi del passato. È però su questi che dobbiamo basare le nostre maggiori ambizioni. Come la stessa logica della "moneta comune" ci induce a fare, se solo ci ricordassimo che il successo di ogni Unione deriva dalla complementarità delle sue parti e anzitutto dal fatto che si mettono in comune più i pregi che i difetti. Non a caso, il governatore Visco ha fatto mettere un nuovo capitolo sull’innovazione, nella Relazione di quest’anno (ed è da pensare che questa aggiunta sarà aggiornata in futuro), e non a caso ha sottolineato la necessità che i nuovi gradi di libertà che la Ue sta per consentirci siano utilizzati per investimenti "per la tutela e la valorizzazione del territorio e del patrimonio culturale e artistico". È partendo dall’integrale di quanto di buono abbiamo saputo fare negli ultimi duemila anni che possiamo tornare a crescere cioè a realizzare una derivata positiva per il benessere delle nuove generazioni. Il vero problema - che il rinnovato dibattito su ciò che ha detto Ignazio Visco, peraltro conferma - è però un altro. Da vent’anni cresciamo poco come Pil e niente come produttività, e da cinque anni andiamo indietro per ambedue, ma ancora ci manca una diagnosi condivisa delle cause di tutto ciò. Sicché è ben difficile organizzare un dibattito, con rilievo anche politico, dei possibili rimedi. Non tocca alla Banca d’Italia, decidere per noi e tanto meno fare al nostro posto. Anche se dovrebbe farci riflettere il fatto che in questo Paese da Carli a Ciampi, da Dini a Saccomanni, tante persone della Banca d’Italia siano andate prima o poi al Governo del Paese. È colpa loro o nostra?