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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

QUEL PADRE VITTIMA DI SE STESSO CHE LASCIA IL FIGLIO A MORIRE IN AUTO

È successo ancora. Madonna che brividi, madonna che senso d’impotente sconcerto. E vedi la foto dell’auto, quella in cui il piccolo è rimasto prigioniero per ore, e poi leggi le prima ricostruzioni. E niente, vien solo da portarsi la mano alla fronte senza nemmeno riuscire a parlare. Un bimbo dimenticato in macchina dal papà, a Piacenza. Come due anni fa, quando due episodi del genere si verificarono a pochi giorni di distanza, a Teramo e Perugia, ed era pressoché lo stesso periodo, la fine di maggio. Con modalità del tutto uguali, così uguali da risultare ancor più agghiaccianti. Il genitore, cuoco in una ditta di catering, che esce di casa e prima di andare al lavoro deve passare dall’asilo per lasciarci il piccolo Luca, sistemato nel seggiolino sul sedile dietro. Ma se ne dimentica. Proprio come accadde al papà di Elena e a quello di Jacopo. Arriva davanti allo stabilimento, scende dalla macchina, il figlio dorme. E sì, se ne dimentica. Lasciandolo in auto per ore e ore, dalle 8 del mattino alle 5 del pomeriggio, mentre ignaro lavora a poche decine di metri. Poi il nonno che va all’asilo a prendere il nipotino e però non lo trova e allora subito telefona a lui che è al lavoro e lui capisce immediatamente quel che è successo e corre corre corre fuori verso la macchina. Troppo tardi. Il piccolo Luca è lì, il suo cuore non batte più, il caldo è risultato insopportabile. Arriva l’ambulanza, nulla da fare. Aveva due anni, piccino. Una morte iniqua.
E anche questa volta come per Elena, come per Jacopo anche questa volta la famiglia appare sana, nient’affatto assimilabile al cliché dei genitori snaturati. E nessuno può capire, nessuno può immaginare. «Ma com’è stato possibile? Come ho fatto?». Sarà la domanda della vita, giorni e notti cercando di ricostruire il quando e il come e il perché, ripercorrendo i minuti e i secondi la memoria che s’inceppa, prigioniera di gesti quotidiani che da chissà quanto tempo si ripetono meccanicamente, e però quella mattina prima di andare al lavoro c’era da accompagnarlo all’asilo, e invece l’hai lasciato lì, sul sedile posteriore. «Dimenticato. Me lo sono dimenticato ». E incontri lo sguardo di tua moglie, e ti pare si rivolga a te quasi implorante, «com’è stato possibile?». Una distrazione, un’irreparabile distrazione, spiegazione banale quanto agghiacciante, certo più d’una qualunque condanna da tribunale umano.
E davvero non si può capire, davvero non si può immaginare. Per dire, chiunque abbia la fortuna di guardare il proprio figlio che dorme, rendendosi conto di come sia vita per la quale sacrificare la propria, e ci pensi quasi spaventandosi per l’amore che ti ci lega, e il timore che gli possa accadere qualcosa di male per poco non ti provoca dolore fisico. «Dimenticato. Me lo sono dimenticato». Che ti si ghiaccia l’anima solo a pensarci.
E certo da discutere ce ne sarebbe e tanto. Ed ecco la troppa importanza che troppe volte diamo a troppe cose in realtà risibili. E i ritmi insostenibili di una società che tritura esistenze come fossero carburante. E, restando alla larga da prediche irritanti e presuntuose, certo bisognerebbe rallentare. Magari anche fermarsi, a volte. Pensare. Riflettere su come sia stato possibile ridurre le nostre vite sempre più simili a una frenetica recita senza intervalli. Acritica, nel senso di subìta sono qui ma sto già pensando a quel che devo fare dopo, e fra un attimo sarà lo stesso rispetto all’attimo successivo. Una vita in cui non fai a tempo ad abituarti alle tue abitudini, ché già c’è da adeguarsi alle nuove. In cui la brama dell’obiettivo finale sempre irraggiungibile, perché sempre spostato un po’ più in là non permette di soffermare lo sguardo su quel che invece accade adesso. Sull’amore di questo giorno. Sul bambino che adesso sta crescendo e un giorno ti svegli e t’accorgi che è diventato grande senza quasi che tu te ne sia reso conto ma guarda come sei diventato grande. E forse è ora di mettere un po’ d’ordine nella testa, perché la verità è che la stiamo perdendo. Che ci stiamo perdendo.
Ma queste sono pippe. L’unica cosa che avremmo voglia di fare in questo momento è da padre a padre abbracciare quell’uomo che si chiama Andrea, come me.
Abbracciare quel papà. Per quel che può servire. Cioè niente.