Enrico Bellavia, La Repubblica 6/6/2013, 6 giugno 2013
QUANDO IL BOSS SI FINGE PAZZO
Li vedi riemergere sorridenti e spavaldi da bunker sotterranei o da improbabili rifugi di campagna. Spentisi i riflettori, assorbito l’impatto col carcere, sono all’opera per uscirne presto in qualche modo. Prima o poi, tutti i mammasantissima giocano la carta della malattia. Meglio se mentale.
Mafia da legare (Sperling & Kupfer pagg. 280, euro 18), il libro scritto a quattro mani dallo psichiatra Corrado De Rosa e dalla giornalista Laura Galesi, cataloga i casi, ricostruisce le storie dei boss finti pazzi e offre un campionario completo di malati immaginari.
Dal depresso all’anoressico. Passando per chi matto non vuole neppure essere riconosciuto ma solo apparire. Magari per lanciare messaggi all’esterno.
De Rosa, davvero i mafiosi ne sanno più degli specialisti?
«Se fai finta di romperti una gamba una radiografia può smascherarti, se ti fingi folle è più difficile dimostrare la farsa. Lo diceva Tommaso Buscetta, lo ripetono oggi i collaboratori. Ci sono intercettazioni che sembrano trattati di psichiatria: Peppe Pelle da Bovalino spiega al medico che ha bisogno di un certificato di depressione maggiore perché sa che quella diagnosi gli sarà utile dal punto di vista processuale».
C’è un uso sapiente della follia utilizzata come elemento di valore per gli uomini d’onore e quella esibita, chiassosa, enfatica dei protagonisti del primo maxiprocesso.
«Quando con Laura Galesi abbiamo iniziato a studiare l’uso della follia tra gli affiliati di Cosa nostra, abbiamo incontrato gente che diceva di essere Napoleone o che in tribunale comunicava solo con borbottii. Non parliamo di bassa manovalanza, ma di Nino e Pino Marchese, di uno dei basisti della strage di Capaci, del boss Agostino Badalamenti. Ci siamo chiesti se questo non contraddica l’immagine di affidabilità che deve veicolare un uomo d’onore. La risposta è no. Perché attraverso quella pantomima il boss ottiene benefici giudiziari: proscioglimenti o riduzioni di pena, scarcerazioni, sospensioni dei processi. In una parola: l’impunità, un valore che val bene una recita, per quanto grottesca».
Ci sono casi limite come i boss che riescono a spuntare una diagnosi di anoressia.
«Sono tanti. Antonio Pelle per il suo deperimento viene ricoverato a Locri, da lì scappa ed è tuttora latitante».
Recentemente, si è aperto un acceso dibattito sulle condizioni di salute di Bernardo Provenzano. Lei cosa pensa?
«Che la sua salute si porta dietro troppi misteri, che con le malattie Binnu ha comunicato con l’esterno per esempio quando a maggio del 2012 si è messo una busta in testa probabilmente simulando un tentato suicidio. E che le immagini del dicembre 2012, che lo riprendono dopo le cadute sospette, sollevano un dubbio: in carcere in questo momento c’è un simbolo o una persona in condizioni compatibili con la detenzione? Al momento, per i giudici lo è».
Andiamo per ordine: il suicidio, secondo lei, sembra simulato. Altra questione sono le condizioni di salute, le cadute e la possibilità che possa essere curato in carcere. Poi c’è il mistero su quello che i suoi dialoghi con il figlio lasciano intendere. Lei che idea si è fatta?
«Ogni interpretazione si muove sulla sottile linea che separa un’ipotesi ragionevole da una complottista. È un fatto, però, che Provenzano non fa niente a caso, che all’epoca del tentato suicidio non c’erano segni clinici che lasciassero intendere un rischio del genere e che un gesto così eclatante non è nelle corde di un boss che si muove tutta la vita sotto traccia. A meno che non sottenda qualcosa di altrettanto eclatante. Poco dopo, Provenzano viene ripreso mentre parla con il figlio Angelo che gli chiede del sacchetto in testa. Fa come se non fosse successo niente, poi dice: ’È questione da interpretare bene, o mi sbaglio?’. Pochi secondi dopo dice che non lo fanno parlare, infine fa un criptico riferimento a quando il figlio aveva ’sedici anni’. Bene: quando si progettavano le stragi del 1992 Angelo aveva proprio sedici anni».
Boss a parte, resta il fatto che in carcere si muore anche di malattia mentale...
«Non c’è dubbio: il rischio suicidario è molto più elevato che fuori».
In ogni caso, per ogni perizia compiacente, c’è un medico compiacente...
«È vero, ma il livello di corruzione tra i medici non supera quello di altri professionisti. C’è dell’altro: i clan, per esempio, hanno consulenti esperti e prestigiosi, li pagano anche 20 volte più di quanto non faccia lo Stato. Questi medici conoscono i tranelli in cui far cadere i periti dei giudici, soprattutto quelli meno esperti. Ecco quindi relazioni in cui un disadattamento carcerario diventa depressione grave o una condotta autolesiva strumentale si trasforma in tentato suicidio».
Esiste un problema deontologico?
«Il diritto alla difesa è sacro. Gli specialisti di mafiosi e camorristi, però, sono troppe volte anche consulenti dell’Autorità giudiziaria. Nessuna legge lo vieta e non c’è incompatibilità. L’opportunità della scelta è lasciata all’etica dei singoli. Questo meriterebbe una riflessione e una proposta di riforma sulle attribuzioni degli incarichi peritali spesso auspicata ma passata nel dimenticatoio».