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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

PERCHÉ I MILITARI NON FANNO UN COLPO DI STATO


Sono in molti a sentire nella vita politica italiana l’odore, o meglio la puzza, del colpo di Stato. O almeno sono molti che affermano di sentirla e agitano le folle alludendo ai fucili pronti e ai bastoni. Tra casi di corruzione, forzature istituzionali, misure economiche inadeguate e confuse risposte dei partiti, tutto sembra preludere a un colpo di Stato. Magari diverso da quello militare, dei garofani o dei generali con gli occhialoni neri, ma sempre golpe. La stessa rielezione del presidente della Repubblica sembra un modo per evitare un colpo di Stato o per scatenarlo. I protagonisti dell’agitazione affermano di agire per il bene comune e per spirito di servizio. E denunciano le azioni dei rispettivi antagonisti come tentativi di colpo di Stato. Sarebbero perciò tutti golpisti. Effettivamente gli eventi di questi ultimi mesi sembrano la sintesi degli ultimi vent’anni e mostrano le conseguenze di tanti colpi allo Stato, alla sua compattezza, credibilità ed equità.
La proliferazione di sintomi reali o percepiti di colpi di Stato può sembrare una paranoia nata da un abuso del termine senza alcuna base dottrinale o scientifica, ma non è cosi. Almeno a giudicare dalle sue classiche definizioni.

2. Le fonti delle definizioni non sono molte e la più autorevole e longeva è di Gabriel Naudé, un mite bibliotecario dell’illuminismo francese [1], secondo il quale il colpo di Stato si muove lungo la stessa definizione della ragione di Stato, che è violazione e abuso del diritto per il bene dello Stato: «I colpi di Stato sono azioni ardite e straordinarie che i principi sono costretti a intraprendere negli affari difficili e disperati, contro il diritto comune, senza guardare ad alcun ordine né forma di giustizia, sacrificando l’interesse del particolare per il bene pubblico». Il coup è un atto essenzialmente politico che può servire a fondare un nuovo potere, a difendere quello esistente dalle minacce oppure a restaurarne uno temporaneamente perduto. Può servire a «debilitare o abrogare certi diritti, privilegi, franchigie ed esenzioni, delle quali godono alcuni sudditi con danno e diminuzione dell’autorità del principe». Può far mutare linea politica a gruppi interni che si manifestano contro l’autorità o le prescrizioni della legge. E può condurre alla rovina o assoggettare un’altra nazione troppo potente e pericolosa per essere affrontata con altri mezzi diretti, come la guerra. Per Naudé, ogni coup è un’espiazione richiesta alla società, purificatrice e necessaria. La sua riuscita dipende da un requisito ineludibile: il segreto. Occorre pianificare con cautela e in segreto scegliendo i mezzi più dolci e facili, rammaricandosi della necessità di ricorrere a quelli estremi, «sospirando e mostrando dolore nell’usarli» e comunque senza precipitare gli eventi. Ma occorre essere spietati e fulminei, senza soggiacere a scrupoli morali quando lo si esegue.
Curzio Malaparte [2] tre secoli dopo scrive un trattato che ha avuto il merito di essere bandito da tutti i regimi del tempo che si erano creati con i colpi di Stato: prova concreta che l’autore ci aveva azzeccato. Malaparte non dà una definizione del coup, ma, pur esaminandone la componente politica, afferma che la conquista e la difesa del potere statale non dipendono più da fattori meramente politici. Molto dipende dalla tecnica. Non serve più attaccare i palazzi del potere politico, ma occorre conquistare i centri tecnologici dello Stato, quali le reti di comunicazione e di telecomunicazione, le centrali elettriche ed energetiche di qualsiasi tipo, le linee ferroviarie e stradali. Secondo Malaparte le potenze civilizzate europee sbagliano a credere di essere esenti dal pericolo di colpo di Stato. Anzi, è proprio il parlamentarismo a favorirlo, specialmente quando le forze politiche sono ben organizzate ma violente e reciprocamente ostili. Oggi appare profetico.

3. Samuel Huntington [3] individua nel 1969 tre categorie di colpo di Stato militari: il golpe-svolta, il golpe-guardiano e il golpe-veto. Più tardi si aggiungerà l’auto-golpe che si verifica quando un legittimo governante chiede l’aiuto delle Forze armate per imporre cambiamenti costituzionali. Nello stesso anno Edward Luttwak [4] pubblica un manuale pratico nel quale afferma: «Il colpo di Stato consiste nell’infiltrazione di un settore limitato ma critico dell’apparato statale e nel suo impiego allo scopo di sottrarre al governo il controllo dei rimanenti settori». Il colpo di Stato è «neutro», è una tecnica e non una filosofia politica. Luttwak parla di «paesi bersaglio», il che rivela la natura esterna del colpo a cui si riferisce. Il manuale, infatti, non serve alle nazioni del Terzo mondo che lottano per una stabilità autoctona, ma a quei paesi colonialisti o ex coloniali e imperialisti che vogliono destabilizzare i «paesi bersaglio» africani, sudamericani o asiatici per installarvi regimi a loro favorevoli. Il manuale di Luttwak non considera le differenze tra Europa e Terzo Mondo e quindi ha fatto disastri quando ha ispirato i golpe diretti o avallati dagli americani in Europa e nell’ambito della Nato. Come, per esempio, il golpe Borghese in Italia del 1970, il tentato golpe bianco di Sogno del 1974, i tentativi di restaurazione fascista in Portogallo nel 1975 dopo la rivoluzione dei garofani, la strategia della tensione in Turchia e nell’Italia degli anni Settanta, l’Operazione Galaxia del 1978 in Spagna, il golpe militare contro il governo democratico in Turchia del 1980, il golpe Tejero in Spagna del 1981. La definizione di Luttwak è però l’unica che consente di interpretare tutte le chiacchiere e le minacce che oggi circolano in Italia e in Europa come altrettanti colpi di Stato. E questo, ovviamente, fa comodo proprio a coloro che vogliono organizzarlo.

4. Da almeno trent’anni non si sentiva l’accorato appello ai militari: «Ma perché non lo fate voi un bel colpo di Stato, che così azzeriamo tutto e ripartiamo da capo». Trent’anni fa i militari in genere rispondevano: «Noi non facciamo colpi di Stato. Siamo fedeli alla costituzione, siamo sopra le parti, siamo sottomessi al potere politico, siamo Forze armate democratiche». Sapevano di non essere convincenti, ma percepivano il tranello. Chi li invitava al colpo di Stato voleva sentirsi dire che non l’avrebbero mai fatto. Ed era vero, ma non per i motivi che venivano dichiarati.
Trent’anni fa c’erano quasi trecentomila uomini alle armi, i carabinieri erano la prima arma dell’Esercito, e i compiti di polizia militare erano di pari importanza a quelli di polizia territoriale. Gli ufficiali dei carabinieri venivano dalle altre armi e solo pochissimi diventavano generali. Ogni fetta di territorio italiano, tra comandi dell’Esercito e dei carabinieri aveva un comandante militare che rispondeva direttamente al vertice militare e politico. La Marina militare aveva alle proprie dipendenze l’equivalente dei carabinieri nel corpo delle capitanerie di porto, che controllava tutta la costa marittima e lacustre italiana, dalle navi da carico agli ombrelloni da spiaggia. I servizi segreti si alimentavano dalle Forze armate e gli ufficiali «I» dei battaglioni e reggimenti erano altrettante emanazioni sul territorio dell’occhio vigile dello Stato.
Le Forze armate stavano appena avendo le prime esperienze all’estero. E l’Esercito di leva rispondeva come mai si sarebbe immaginato. C’erano comandanti che abusavano della loro autorità ma anche molti che rispettavano talmente i propri soldati e la propria professione da prendere sul serio ogni minuto di servizio. E il servizio non finiva mai. Intere generazioni di ufficiali per bene hanno provato il brivido della responsabilità di comando in emergenza e almeno una volta nella loro vita hanno pensato «io con questi soldati andrei dovunque». E c’erano soldati di qualunque fede politica e condizione sociale che pensavano «io con questo comandante andrei dovunque». Ma dove dovevano andare? Nel 1982 l’Esercito di leva obbligatoria mandò i suoi soldati in Libano, con gli elmetti e i mezzi da combattimento verniciati di bianco tanto per essere sicuri che i cecchini non li mancassero. Fu un successo. Nel 1991 una brigata doveva andare nella guerra del Golfo: era già pronta e addestrata, poi un ministro, cadendo dalle nuvole, disse che non sapeva che i soldati fossero di leva e non se ne fece niente. Andarono soltanto un pugno di forze speciali e dieci aerei Tornado di cui uno non tornò affatto. Nel 1992 dovemmo mandare i nostri contingenti in Somalia. Dovevano essere tutti volontari. Era una pura idiozia che copriva l’ipocrisia di una classe politica incapace di assumersi le proprie responsabilità.
Trent’anni fa i soldati erano classificati in affidabili e non affidabili in relazione all’orientamento politico. Ma poi la notte, quando suonava l’allarme e bisognava prepararsi in mezz’ora e uscire dalla caserma in assetto di guerra, c’erano tutti. Si facevano tre tipi di esercitazioni d’allarme: di difesa, d’intervento per pubbliche calamità e per emergenza interna. Per i soldati cambiava poco, bisognava imbarcare sui mezzi più o meno badili, ma fucili e cannoni erano sempre gli stessi. La differenza era nello scopo e nel piano d’attuazione che in genere era noto nei dettagli soltanto a pochi ufficiali e comandanti. Trent’anni fa l’emergenza interna per disordini o sovvertimenti istituzionali prevedeva lo schieramento delle unità operative in zone predisposte mentre un centinaio di nuclei di collegamento formati da ufficiali armati si presentavano ai prefetti e, a seconda della situazione, o si mettevano a disposizione o comunicavano l’assunzione dei poteri civili da parte dell’autorità militare. Legalmente era l’intervento a salvaguardia dello Stato, tecnicamente era simile a un colpo di Stato. Per i soldati e gli ufficiali era uno dei tanti esercizi di prontezza operativa. Nessuno spiegava ai soldati la situazione da affrontare e come si fosse arrivati a tale misura. Nessuno discuteva, nessuno sapeva se la decisione fosse stata presa dal governo o dall’amica del generale o del presidente, se la Cia fosse stata avvertita, se l’ambasciata americana fosse d’accordo e quali condizioni avesse dettato Kissinger. Nessuno sapeva se gli altri capi di Staro maggiore fossero parte del piano e se qualcuno fosse già andato in Spagna a trovare Skorzeny per consigli sul da farsi, o se Gladio fosse della partita [5].
Intere unità si spostavano da una parte all’altra del paese, si presidiavano i punti nevralgici della rete elettrica, della produzione e delle comunicazioni. Ad ogni emergenza si prendevano armi e bagagli e si partiva. Si sapeva soltanto che durante la notte un messaggio cifrato in codice Manfredi aveva buttato giù dal letto l’ufficiale I del reggimento. Il messaggio decifrato era altrettanto sibillino: attuare piano X, stato Y, misura Z. Poi i comandanti aprivano le casseforti, rompevano i sigilli ad altrettante buste ed eseguivano gli ordini contenuti. Era una sorta di rito religioso. Bisognava fare attenzione a prendere le buste giuste. Una manomissione della busta sbagliata comportava guai infiniti.
Il 1983, trent’anni fa, fu l’anno della crisi nucleare tra Nato e Patto di Varsavia, dell’abbattimento da parte dei sovietici del Jumbo coreano del volo civile Kal 007, scambiato per l’analogo aereo spia americano che da giorni violava lo spazio aereo sulla Kamčatka e Sakhalin; fu l’anno della sfida nucleare dell’esercitazione Nato Able Archer, dei missili SS20 sovietici allertati contro centinaia di obiettivi in Europa e 350 obiettivi negli Stati Uniti. Nel 1983 un cauto tenente colonnello russo salvò forse il mondo dalla catastrofe nucleare. Per tre volte il suo sistema d’allarme collegato con i satelliti segnalò un attacco missilistico americano, per tre volte si accesero le spie ordinando l’approntamento al lancio dei missili intercontinentali balistici contro l’America e l’Europa. Per tre volte Stanislav Petrov, da buon russo scettico e non intriso di fede religiosa nella tecnologia pensò che fosse un errore del sistema e per tre volte aspettò i sette minuti necessari ai missili americani per raggiungere Mosca. Per tre volle ebbe ragione: era un errore del sistema, ma se avesse avuto torto nessuno sarebbe mai più uscito dai bunker. Se avesse riportato gli episodi ai suoi superiori lo avrebbero costretto a lanciare i missili come era accaduto al comandante dell’intercettore che più volte si fece ripetere l’ordine di abbattere l’aereo di linea coreano. Se lo stesso incidente fosse accaduto a un comando missilistico americano nessuno avrebbe messo in dubbio la tecnologia e nessuno avrebbe esitato a premere il bottone. Questo fu esattamente lo scenario del film The day after che in quello stesso anno spaventò a tal punto il presidente Reagan da convincerlo ad abbassare i toni con i sovietici.
Negli anni di paranoia missilistica e nucleare, da noi c’era anche la paranoia non del tutto peregrina dell’attacco terroristico, del colpo di Stato e della sovversione interna. Poteva anche succedere che uno zelante tenente colonnello della sala operativa dello Stato maggiore dell’Esercito aprisse la cassaforte sbagliata e diramasse gli ordini contenuti nelle buste sbagliate. Le unità operative si sarebbero schierate nelle zone di diradamento e centinaia di ufficiali armati si sarebbero presentati dai prefetti. Erano esercitazioni, ma ogni volta il ministro della Difesa si compiaceva mentre quello dell’Interno se la faceva sotto. Perché c’era la possibilità che qualche testa calda o qualche reparto speciale, nel turbinio delle attività, provasse davvero un colpo di Stato. Perché c’erano migliaia di menti eversive anche nei ranghi delle Forze armate e impensierivano anche se erano dei frustrati, trombati, ambiziosi smodati e narcisisti. Perché molti di loro ci avevano già provato e non erano sopra le parti ma di una parte che diveniva manifesta ogni volta che a salvarli dalla galera interveniva una candidatura politica. Anche il ministro della Difesa tirava un sospiro di sollievo. Perché trent’anni fa accanto alla massa dei quadri affidabili c’erano gli opportunisti, c’era il proletario in divisa che non voleva sacrifici ma privilegi, il massimo della sua aspirazione era la demolizione, la demonizzazione delle Forze armate. La cosiddetta rappresentanza militare rifiutava il dialogo con l’istituzione militare e preferiva la fidelizzazione nei riguardi di un partito piuttosto che la fedeltà alla Repubblica. E c’era una parte consistente ancor più arrogante che si spacciava per conservatrice e depositaria dei valori supremi della patria, del dovere e della disciplina. In realtà era senilmente nostalgica nei riguardi del sistema fascista che aveva preso il potere proprio con una serie di colpi di Stato.
Circa trent’anni fa, nel 1981, venne alla luce l’affiliazione alla loggia massonica della P2 diretta da Licio Gelli di 962 persone tra le quali 44 parlamentari, 2 ministri dell’allora governo, un segretario di partito, 12 generali dei carabinieri, 5 generali della Guardia di finanza, 22 generali dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti e imprenditori. La lista fu ritenuta dallo stesso Licio Gelli un brogliaccio incompleto in quanto gli affiliati erano oltre 2.400. Era dai tempi del tintinnare di sciabole percepito nel 1964 con il Piano Solo dei carabinieri guidati dal generale De Lorenzo che non si accendevano i fari e i sospetti sulla tenuta democratica delle Forze armate.
Dovettero passare più di vent’anni anche per capire qualcosa sugli eventi e le connessioni con la P2 di un altro piano eversivo che sembrava non aver avuto alcun fondamento: il golpe bianco di Edgardo Sogno del 1974. Nel 1997, con un’intervista, e nel 2000 con i suoi scritti pubblicati postumi [6], Sogno stesso rivela le intenzioni e i personaggi coinvolti nel suo progetto. Ammette di aver voluto replicare in Italia il golpe di de Gaulle del 1958. Ma rifiuta l’etichetta di colpo di Stato e descrive il suo progetto come «l’accantonamento temporaneo della rissa dei partiti sulle riforme, l’elaborazione in un comitato ristretto della nuova costituzione di modello semipresidenzialista alla francese da sottoporre all’approvazione dei cittadini con referendum, per avviare, con nuove elezioni, una vita democratica normale». Lo stesso concetto che verrà ripreso dalla loggia P2, alla quale anche Sogno è affiliato e che dovrà sembrare una sorta di legittimazione. Sogno rivela i nomi dei membri del suo gruppo di «patrioti». Compaiono politici di ogni estrazione: ex comunisti, socialisti, repubblicani, liberali e fascisti. Ci sono cinque medaglie d’oro al valor militare di cui due della seconda guerra mondiale e tre della Resistenza. Tra le più alte cariche dello Stato compare il procuratore generale della Cassazione. La parte militare è tra le più rappresentate. Ci sono un ex capo dell’Esercito, il capo della Marina con un paio di ammiragli, una decina di generali, il comandante della Guardia di finanza, due generali dei carabinieri, il comandante della Scuola di guerra e un paio di ufficiali dei paracadutisti. Molli di questi sono anche membri della P2, ma nessuno dei nomi fatti da Sogno era comparso nell’inchiesta giudiziaria del 1974.
La regola del segreto di Naudé era stata ben rispettata. La rosa dei nomi dà l’impressione che nelle Forze armate ci siano soltanto dei nostalgici pronti a forzare le istituzioni per il bene pubblico, una cosa già nota. Ma è lo stesso Sogno a rivelare che la sua lista non comprende la parte più retriva, violenta ed eversiva delle Forze armate. Sogno parla di un’azione «spietata e rapidissima» che i militari potevano fare nei confronti del presidente della Repubblica. Riferisce poi: «In quegli anni c’erano militari “democratici”, che condizionavano il loro intervento a una chiamata del presidente della Repubblica. Ce n’erano altri che non la pensavano così. Potrei raccontare molti colloqui con ufficiali che erano propensi a una soluzione di tipo cileno, che facevano discorsi da far paura: dicevano che era necessario far fuori i politici e i comunisti. Li abbiamo tenuti fuori dal nostro progetto». Evidentemente, a Sogno e a quei militari da lui definiti «democratici» sfuggiva il dettaglio che nella democrazia italiana nemmeno il presidente della Repubblica ha la facoltà di far intervenire le Forze armate per eliminare le opposizioni politiche o violare la costituzione. Ma a nessuno è sfuggito il particolare che nel gruppo di Sogno c’era anche un generale dei carabinieri che avrebbe chiesto di bombardare con i missili della Marina il carcere di Alessandria per eliminare tutti i detenuti che secondo lui erano pericolosi comunisti. Non era sfuggito l’altro particolare che i militari «da far paura» erano ancora dentro le Forze armate.
La risposta ambigua e reticente dello Stato ai fenomeni eversivi degli anni Settanta e Ottanta, mai definitivamente chiariti, non ha fatto cessare la produzione di potenziali golpisti nell’ambito politico e militare nazionale. E d’altra parte non è mai cessata la strumentalizzazione del rischio di golpe. Nel 1993 c’erano ancora personaggi squallidi che faceva comodo accreditare sia come golpisti sia come mitomani e imbecilli, come il presunto organizzatore del golpe di Saxa Rubra che voleva far colpo sulla fidanzatina arrapata di complotto internazionale. In quegli stessi anni c’erano militari di rango della stessa specie che parlavano di colpi di Stato, attentati terroristici e azioni di forza per compiacere superiori nostalgici, impressionare dipendenti psicolabili ed eccitare le amanti. Ecco perché alla richiesta di prendere le armi per salvare la patria dallo sfascio politico molti nelle Forze armate trent’anni fa potevano rispondere «già fatto, grazie!» e altri rispondevano «no, grazie!»

5. Oggi la situazione politica interna e il ruolo internazionale dell’Italia sono ai minimi termini. Abbiamo perso sovranità, dignità, ricchezza, credibilità e voglia di reagire. Non c’è nessun nemico armato alle porte di casa. E quelli che ci vengono indicati come nemici sono il frutto di speculazioni tendenti al profitto. Le classiche definizioni di colpo di Stato contengono elementi che si adattano perfettamente a tutti gli eventi che accadono. Non sono fabbricazioni, fantasie o metafore. Oggi l’accezione comune dei colpi di Stato tende a comprendere le caratteristiche dell’insurrezione, della guerra di liberazione, della guerra civile, della rivolta di piazza e dell’infiltrazione nei gangli dello Stato. Le varie definizioni sono abbastanza ampie da comprendere la guerra per bande. Ossia la guerra che le organizzazioni economiche, finanziarie e criminali e i gruppi di pressione emanati dai centri di potere multinazionali e transnazionali conducono contro gli Stati, per la distruzione del sistema degli Stati, per la sottrazione della sovranità agli Stati, per scopi prettamente privati di profitto e di potere, a scapito e detrimento del bene pubblico e del pubblico patrimonio. In questa guerra non esistono poteri militari che possano legalmente e legittimamente porvi rimedio.
Ma nelle condizioni italiane di oggi è difficile anche vedere l’impiego di forze militari per azioni illegali, ancorché ritenute o spacciate per necessarie. E, ancora una volta, non perché siano «democratiche».
Oggi le Forze armate sono formate da professionisti delle armi. I carabinieri sono forza armata a se stante. Hanno i loro generali, a decine. Sono inseriti in tutti i settori della vita pubblica e in molti delle attività private. Coltivano relazioni con tutti i centri di potere e ne controllano tutti i detentori. Hanno il culto dello Stato. Si sentono guardiani dello Stato, ma non si sa fino a che punto possono spingere le loro convinzioni. Secondo la definizione di Luttwak sarebbero i candidati perfetti per fare un colpo di Stato. Ma loro stessi sembra abbiano qualche dubbio motivazionale se per recuperare immagine devono affidarsi all’umanissimo maresciallo Rocca e a don Matteo. Anche la polizia e la Guardia di finanza sono «infiltrati» nella politica e nei palazzi del potere. Ma non sembra che vengano particolarmente sollecitati ad assumere il potere. La gente non si fida ancora dei manganelli e delle tasse. Anche le Guardie forestali stanno attente a non lasciarsi coinvolgere e per recuperare immagine sono costrette a farsi prestare don Matteo dai carabinieri. Quello che invece fanno i servizi segreti è talmente segreto che sembra non facciano mai niente. Ed è meglio così.
Rimangono le Forze armate classiche che tentano disperatamente di farsi notare, ma non fino al punto di organizzare un colpo di Stato. I soldati sono tutti idonei al combattimento e senza pancia, per ordine ferreo delle superiori autorità. Ogni ufficiale ha già fatto una decina di missioni all’estero, molti soldati hanno combattuto davvero e un caporale ha già il petto pieno di medaglie. Parlano una lingua fatta di sigle ed espressioni gergali incomprensibili. L’Esercito italiano è in realtà un esercito «borbonico» in quanto quattro regioni del Sud forniscono l’80% dei soldati e il 70% degli ufficiali e sottufficiali. Non è un problema di qualità, di cultura e affidabilità perché sono giovani solidi, capaci e motivati, ma di senso di appartenenza nazionale. Questi soldati si sentono italiani solo all’estero. Quando sono in patria si sentono fuori posto da Roma in su. Faticano a farsi capire e non si mescolano con la società civile. Passano metà del tempo in servizio e l’altra metà in viaggio per andare a trovare moglie e figli o attaccati al telefono. Dopo una decina d’anni di servizio sono pagati 7 euro all’ora, meno di un manovale rumeno. Possono fare tutto ciò che viene ordinato, ma con qualche distinguo importante. Ognuno di loro ha un avvocato che ne tutela i diritti. Sa sparare come un dio, ma sa anche che non può soltanto sparare e deve fare attenzione alle circostanze. Il professionista delle armi vuole le regole d’ingaggio e le vuole chiare. Lo spirito di corpo è forte, ma comprende anche l’impegno del corpo a non far correre al soldato rischi inutili, a non commettere azioni illegali. La fiducia nei superiori non dipende dal grado, ma dall’esperienza. Un caporalmaggiore inquadrato in un plotone è più anziano e più esperto del tenente che lo comanda. Per arrivare a una pari esperienza con i soldati bisogna essere almeno capitani con oltre cinque anni di grado. Bisogna anche avere all’attivo qualche missione importante o qualche ferita di servizio. Le chiacchiere e le lauree non servono a molto.
La disponibilità di questi soldati a seguire il proprio comandante in un’operazione sul territorio italiano non dipende più dall’obbedienza o dalla rassegnazione. Dipende dalla consapevolezza del compito da svolgere. Se un ordine è ritenuto illegittimo o esorbitante le prerogative, scatta subito la contestazione e la telefonata all’avvocato. Perché un reparto sviluppi tutto il potenziale dello spirito di corpo necessario a garantire l’unità e la tenuta di un’impresa simile al colpo di Stato occorre un profondo indottrinamento e una buona dose di fanatismo. Occorre la convinzione comune che l’intervento è necessario, che è utile alla patria e che non ha alternative. Occorre la convinzione di essere chiamati a intervenire da un’autorità che è superiore e addirittura estranea a quella politica nella quale c’è fiducia zero. Deve essere l’autorità autoreferenziale sancita dai propri comandanti e dai propri commilitoni; dev’essere la convinzione di affrontare una missione mitica, eroica e per il bene dell’intera nazione. Non è difficile inculcare queste convinzioni: ci sono metodi già in atto di «pompaggio» dell’autostima e dell’autoreferenzialità. Ma è un lungo lavoro d’indottrinamento che deve comprendere lo sviluppo di una coscienza politica che oggi i soldati e molti ufficiali non hanno. È un lavoro che non può rimanere segreto e che al primo accenno sul vero scopo non sarebbe accettato da tutti. Le unità militari devono essere anche consapevoli che per assumere il potere devono scontrarsi con altre forze che non partecipano al golpe (lealiste), con le forze di polizia di vario tipo e con i movimenti di piazza. Non è facile da far accettare: se il soldato è «borbonico», anche il poliziotto, il finanziere e il carabiniere sono «borbonici». Sono tutti compaesani e parenti.
Non è necessario che tutte le Forze armate partecipino a un golpe, ma è necessario che quelle che non partecipano se ne stiano tranquille. Per questo tutti devono condividere i piani e anche questo non è facile: le varie Forze armate e i vari servizi segreti non sono affatto parenti. La dirigenza delle Forze armate è soltanto nominalmente soggetta a un vertice unico. Ogni capo di Stato maggiore è comandante della propria forza e si avvale di un comando operativo per disporre delle unità di combattimento. Le forze speciali dell’Esercito e la brigata paracadutisti sono alle dirette dipendenze del capo di Stato maggiore che però sa benissimo di rischiare carriera e pensione soltanto per un’intemperanza di queste unità. Le forze speciali dell’Aeronautica e quelle della Marina, assieme al reggimento San Marco, sono nelle stesse condizioni. I rispettivi capi di Stato maggiore sono i loro diretti responsabili e devono esercitare un controllo strettissimo se non vogliono diventarne ostaggi.
E poi a livello pratico c’è l’ostacolo della pianificazione, della conoscenza del territorio e del controllo delle mille organizzazioni che possono far fallire ogni iniziativa. Da trent’anni o quasi non ci sono più i piani per l’emergenza interna. Oggi un colonnello che si presenta dal prefetto con la pistola viene subito arrestato. Le unità militari non hanno le mappe del potere. E i centri del potere tecnologico sono innumerevoli e ridondanti. Se un generale si presenta in televisione per leggere il proclama della legge marziale la gente risolve il problema cambiando canale.
Le occasioni e le capacità tecniche per una dimostrazione di forza non mancherebbero. Con le operazioni di difesa dei punti sensibili come quella denominata Testuggine ogni reparto militare ha una conoscenza diretta dei punti vulnerabili del proprio territorio. Ogni giorno il cambio della guardia al Quirinale e la turnazione dei servizi di guardia alle ambasciate affidati all’Esercito mobilitano per Roma centinaia di mezzi militari. La parata del 2 giugno mobilita migliaia di soldati e mezzi di ogni tipo. La festa dell’Arma dei carabinieri raccoglie tutte le più importanti cariche dello Stato che volontariamente si ficcano nel recinto di piazza di Siena. I soldati sono addestrati più ai posti di blocco e al cordon and search che all’assalto contro una posizione nemica. Un reparto ben addestrato potrebbe facilmente isolare e perquisire un intero quartiere. Ma non è detto che i punti sensibili conosciuti coincidano con quelli d’importanza strategica ai fini di un colpo di Stato. Non è detto neppure che ci siano comandanti disposti ad assumere la responsabilità di tali operazioni. Non perché siano tutti convinti guardiani della costituzione, ma perché molti sarebbero incerti dell’esito e diffidenti gli uni degli altri. Perché, per quanto autorevoli, non ci sono capi credibili per un’azione di forza, né leader carismatici in grado di coagulare un nucleo sia pur ristretto di gente capace. Perché nessun militare oggi saprebbe cosa fare appena assunto il potere militare anche in una forma semilegale di emergenza. Nessuno possiede le conoscenze per esercitare i poteri civili e nessun civile di buon senso si affiderebbe a un militare. Oggi se un soldato va a morire in qualche posto sperduto è considerato un eroe, ma qui, a casa, non deve contare niente. E poi, perché, tutto sommato, le finalità individuali prevalgono su quelle istituzionali, l’interesse privato su quello pubblico. Tali finalità e interessi appaiono più facilmente conseguibili con un’iscrizione alla massoneria, a un circolo di bridge o di golf oppure con un’affiliazione a qualche cordata militare, industriale o politica: meglio se tutte e tre le cose. Infine le Forze armate italiane non hanno fama di ferocia o disumanità, non farebbero paura a nessuno e anzi se scendessero in piazza solleciterebbero la reazione anche scomposta dei singoli. E della turba.
Ci sarebbero però tre casi casi possibili per un intervento delle Forze armate: la risposta a un tentativo di golpe, un contro-golpe e un auto-golpe. In tutti questi casi le Forze armate dovrebbero essere chiamate da un’autorità legittima a intervenire e assumere l’onere dell’ordine pubblico e di alcuni servizi essenziali come i tribunali speciali, i campi di confino o le epurazioni. Ma ognuno di questi casi comporta il forte rischio di guerra civile e deve avere una preparazione di base che nessuno ha finora ricevuto.
Ad ogni modo, per un colpo di Stato militare di qualsiasi tipo nell’attuale situazione italiana è forse troppo tardi. Forse altri ci hanno già pensato senza scomodare i fucili. Sono in troppi a sentirne la puzza e il colpo di Stato è come la scorreggia: quando senti la puzza è già fatta e chi la sente per primo è chi l’ha fatta.




1. Gabriel Naudé (1600-1653), erudito e medico francese. Fu medico di Luigi XIII e bibliotecario a Roma dei cardinali Gianfrancesco Guidi di Bagni e Francesco Barberini e a Parigi del cardinale Mazarino. Pubblica Science des Princes, ou Considérations politiques sur les coups-d’Etat in una dozzina di esemplari.
2. Curzio Malaparte, pseudonimo di Kurt Erch Suckert (1898-1957), giornalista e scrittore italiano, nel 1931 scrisse Tecnica del colpo di Stato, ripubblicato nel 2011 da Adelphi.
3. S. P. HUNTINGTON, Political Order in Changing Societies, New Haven and London 1968, Yale University Press.
4. E. N. LUTTWAK, Coup d’Etat: A Practical Handbook, Cambridge MA, 1968, Harvard University Press.
5. Tutte cose veramente avvenute durante il golpe Borghese.
6. Cfr. G. M. BELLU, «Italia 1974: a un passo dal tintinnar di sciabole», la Repubblica, 15/3/1997; E. SOGNO, A. CAZZULLO, Dalla resistenza al golpe bianco, Milano 2000, Mondadori.