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 2013  giugno 05 Mercoledì calendario

QUANDO «IL MARE, IL SUOL» SONO L’OVALE DI UN TELESCOPIO

All’Opera di Amsterdam, il regista e sovrintendente Pierre Audi mette in scena un’eccellente Walkiria wagneriana. Vi è però lì un boccascena da concerti, come all’Auditorium romano, spalancato con le prime file del pubblico addosso a un sensazionale giro della piattaforma lignea che ospita l’intera azione, e anche la passeggiata (non cavalcata) delle vergini guerriere aerodinamiche. Dovendo anche reggere i grovigli di dubbi e problemi di Wotan, ben più ambigui e complessi che la retorica romanistica tutta d’un pezzo del Rienzi capitolino.
Al centro, emerge un’orchestra come la negazione stessa del golfo mistico a Bayreuth. Sei colonnine sono arpe chiarissime, lindissime, fra i cenci e stracci millimetrici ma esageratamente sbrindellati, e sinistri luccichii sulle assi lignee, in un’alba molto livida e temporalesca. Tutto assai solenne, e vicinissimo al pubblico. Ci vorranno grossi adattamenti per ricondurre tali spettacoli su un palcoscenico davanti alle file di palchi ove tradizionalmente si cuoceva il risotto portato da casa, mentre in platea stavano in piedi, anche con cappello in testa.
Cantanti eccellenti, a partire da Doris Soffel, una maestosa Fricka imperiosa in bianco tipo Giunone verso Giove. Trecce, codini, samurai, elmetti luminosi, maledizioni, incesti, una capanna vagamente ferroviaria, gesti e lumi accuratissimi. Non sparati in faccia. Wotan perde man mano il braccio-rampino metallico e la fasciatura da guercio, rimane in una redingote chiara con su un albero, come la Regina d’Olanda. In queste prime file, un po’ laterali, si pagano sessanta o settanta euro.
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Per La Traviata, benché cantata in italiano da cantanti stranieri, e già festeggiata a Salisburgo in questo medesimo spettacolo di Willy Decker, forse non tutti gli spettatori saranno come quella giovane coppia elegante citata alla Scala perché trovava «un buon effetto di regia» l’andata via di un tenore e l’entrata di un sostituto in jeans durante uno stesso atto all’Aida.
Anzi, si ricorda ancora alla Scala che nel 1955 Luchino Visconti aveva chiesto al piacente baritono Bastianini di non indossare la solita «parrucca da vecchio». Così la Callas aveva un moto di trasalimento nel secondo atto della Traviata. E talune signore: «La s’è acursüda che el papà l’è püssè bel de quel pansùn de tenùr». E un marito, che ho ben sentito: «Tranquila, l’avara connossù quand la stava ancamò in casìn». Del resto, le madame adoravano tutte il baritono Tito Gobbi, bell’uomo. Così, quando entrò in scena stracciato nel Wozzeck, e i giornali notarono che il pubblico era contrario alla musica di Alban Berg, le dame si ribellarono in coro: «Vergogna alla Scala! Vestì inscì un bel omm da barbùn!». E dovette fermare l’opera, il direttore Mitropoulos. «Lasciateci lavorare». E al magico termine i tumulti tacquero.
Ora, qui, in un Nulla ovale tipo telegiornale con l’orchestra nella sua buca ben diretta da Giuliano Carella, sembra di assistere alle conseguenze della crisi economica. Solo un quadrante d’orologio sulla destra: e sotto, un vecchio. Lei angosciatissima in gonna rossa entra già durante il Preludio. Quindi, un coro di piccoletti in nero: giovanotti che si divertono fra loro. Senza cortigiane. Brindisi, con lieti calici che tanti anni fa (in epoche di Nasser, al Cairo senza stranieri) portavamo avanti e indietro dal nostro albergo alla vecchia Opera ancora di legno, con Uberta Visconti consorte di Franco Mannino che dirigeva La Traviata.
Il Vecchio sotto l’orologio sarà il Tempo? E sarà papà Germont l’altro Vecchio che occhieggia in alto? Nel secondo atto, sofà tristissimi, con metraggi economici di Fiorami su fondi scuri. Bollenti spiriti in mutande. Lei in sottoveste, anche quando arriva il topone pirandelliano iettatore. Sgargiante di nerezza: ma qui sarebbe giocoforza ricordare il fondatore del festival di Aix-en-Provence, Gabriel Dussurget, paragonando «Di Provenza il mare, il suol» alla sua testimonianza del «vieil Aix» quale città con l’aristocrazia più vecchia e chiusa e apatica di Francia. «Persino i commercianti vi sono difficilmente accessibili», sostiene lui nell’ultimo dopoguerra. E allora? Queste nerezze non sobrie ma shocking? Nel nulla?
Avevano ragione piuttosto Luchino e Lila de Nobili? O il contesto di costume non conta, magari storicamente, con tutta quella tisi anacronistica fra «Parigi o cara», «Croce e delizia», «Povera donna», «Amami Alfredo», «Violetta deh pensateci»... Altro che la titubanza del topone fra «Bella voi siete e giovine, con Tempo»... e «Un dì quando le Veneri, il Tempo avrà fugate», vorrebbero ben notare le signore della Scala. E un angelo bugiardo? Osserverebbero che «siate di mia famiglia, l’angel consolator» presuppone sia «non amarlo ditegli» sia «è Dio che ispira, tal detti a un genitor». Vergogna?
Forse ci vorrebbe davvero una giostrina dei cavalli, col «malcauto vegliardo» che ripete a ogni giro «Di Provenza il mare, il suol» e «Qual Destino ti furò» e «Dio m’esaudì», mentre «una dama da un cocchio»... Sempre in un Nulla ovale da telegiornale. Potrebbe tornare in mente Gianfranco Contini, che chiamava «cocchio» il tassì e «auriga» il tassista. Eppure la «tra-a-a-aviata», secondo il libretto, Violetta Valéry, si chiama come il poeta Paul Valéry, che in Provenza è nato e ha studiato. E lì si trova il suo Cimitero Marino.
Comunque, niente zingarella, nel terzo atto. Solo coriste in maschera, sopra l’ovale. Una corrida uso Carmen casareccia, col Bue Grasso da strapazzo. L’orologio, messo giù, si rivela una roulette; e lei sopra, «Questa donna pagata io l’ho!» come scena madre, e non come se coniugi o amanti non fossero soliti scambiarsi somme vicendevoli. «N’è duce il Viscontino», e lì una matta si traveste con la sottanina rossa di lei. Però, nel finale, fra i toponi, Marina Poplavskaya sempre più brava.
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«Maliarda hai vinto!». Dapporto zompava tra le capaci braccia (forse) di Alda Mangini. Ma li si disfaceva una collana. E raccattandole una a una, allora, «le pirle!».
Alberto Arbasino