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 2013  giugno 04 Martedì calendario

TORNARE ALLA LIRA SI PUÒ BASTANO SOLO DUE ANNI [3

pezzi] –
Nel 2001 e nel 2003 si discusse della possibilità di espellere o sospendere un Paese membro dell’Unione Europea o semplicemente lasciare la porta aperta perché qualcuno se ne potesse andare. Anche in sede di Trattato di Lisbona, l’argomento riaffiorò, ma fu subito lasciato cadere. Si preferì optare per cavilli legali e burocratici con l’intento di rendere perenne e perpetua l’adesione alla Ue. In realtà non è proprio così. Anzi l’articolo 50 del trattato di Lisbona rappresenta la sola strada percorribile per chi voglia divorziare dalla moneta unica e dai vincoli comunitari. La procedura di addio impone alla nazione che vuole abbandonare l’Unione di comunicare la scelta al Consiglio. A questo punto si apre un negoziato che si dovrebbe chiudere con un accordo in grado di fissare le modalità del recesso, con una delibera adottata a maggioranza dal Consiglio e approvata dall’Europarlamento. Si fa cenno anche alle tempistiche: ovvero dall’avvio della separazione passeranno due anni. A quel punto potrà consumarsi il divorzio. Nel frattempo, ovvero dall’entrata in vigore dell’accordo di recesso, i Trattati smettono di essere applicabili per lo Stato in questione. Stando alle interpretazioni non sembrerebbe possibile lasciare la moneta unica senza dire addio all’Unione. Ciò che è certo è che nessuna nazione può aderire all’Emu (European andMonetary Union) senza prima aver passato tutti gli esami per diventare membro Ue.
Un interessante report di Credit Suisse del 2011 dal titolo «European Economics and Strategy » si chiedeva se sia possibile una uscita volontaria dall’euro da parte della Germania. Posto il fatto che si tratterebbe di una drastica inversione di rotta (l’euro è di fatto un progetto tedesco) all’inizio causerebbe ingenti perdite alle banche, fondi pensione e alle assicurazioni di Berlino. Gli asset allocati in Spagna, Grecia, Italia e Portogallo rappresentano il 31 per cento del Pil tedesco. Con una passività immediata del 13 per cento. Senza contare la perdita di liquidità che Berlino subirebbe non trovandosi più in una posizione di emettitore benchmark. Se poi la rottura dell’euro avvenisse in modo traumatico, ovvero senza un coordinamento da parte della banca centrale, il costo complessivo dell’operazione si aggirerebbe sempre secondo Credit Suisse sui 430 miliardi di euro, comprese le perdite dirette della Bce e le svalutazione di tutti gli investimenti nei Paesi oggi considerati periferici.
Più recente, rispetto al paper, è la proposta dell’economista portoghese autore del bestseller «Perché dovremmo abbandonare l’euro», Joao Ferreira do Amaral. Ipotizza la creazione consensuale di un nuovo Sme. Gli Stati che lo desiderano annunciano, senza abbandonare l’euro, di tornare in una sorta di nuovo sistema monetario europeo, accettando però una banda di fluttuazione superiore al 15%: a quel punto i bilanci delle banche dovranno tenere conto delle svalutazioni, ma scorporare il credito verso famiglie e imprese. Per evitare il cosiddetto credit crunch lo Stato potrà prestare moneta alle banche emettendola direttamente. Interverrà la Bce che, tramite uno strumento mensile di controllo delle fluttuazioni (crawling peg) e in caso concedendo direttamente denaro, impedirà che l’euro “nazionale” superi la percentuale di oscillazione concordata. A quel punto, dopo un anno o due, stabilizzata la valuta, il divorzio potrebbe avvenire senza troppi danni collaterali. La strada del nuovo Sme non avrebbe certo i costi di una rottura violenta, ma per percorrerla servirebbe una variante all’articolo 50. E visti i tempi della Commissione quanti anni dovremo attendere? Basti pensare che per scrivere il Trattato ne sono serviti nove.
Claudio Antonelli

«ABBIAMO SUBITO UNA GRANDE ILLUSIONE ORA PIÙ POTERI A STRASBURGO E BCE» –
«Gli indicatori economici italiani sono tutti negativi perché siamo di fronte a una recessione peggiore di quella del 1929, non per l’euro. Io non gli attribuisco un peso rilevante perché in generale non lo attribuisco alla moneta. Era meglio non avere questo euro che è il marco tedesco imposto a tutta l’Europa». Giulio Sapelli, intellettuale mai allineato, insegna storia economica all’Università statale di Milano e illustra la sua ricetta per mettere mano alla moneta unica. Ma avverte: «Uscire sarebbe una catastrofe».
Professore, è partito il dibattito attorno all’ipotesi di dire addio all’euro. È realistico?
«È una falsa battaglia. Bigona mettere in discussione la costituzione europea e soprattutto i trattati di Maastricht. Uscire dall’euro sarebbe una catastrofe».
Questi 15 anni di euro, però, non sono da meno.
«Ma il problema non è l’euro. Il problema è che la politica economia europea è stata mal impostata prima della moneta unica. Questa di oggi era meglio non averla. Abbiamo accettato valori dell’euro penalizzanti. Siamo stati l’unico paese europeo ad averci perso: i nostri stipendi sono stati dimezzati. La moneta unica andava preceduta da un assetto politico diverso».
All’Italia è andata male, ma qualcun altro ha vinto la scommessa.
«Ha guadagnato solo la Germania e pochi altri. All’inizio si pensava che l’Italia e gli altri paesi poveri, quelli dell’Europa del Sud, avrebbero potuto ottenere vantaggi. In una prima fase, in effetti, l’euro ha ridotto i consumi e così ha protetto dall’inflazione. Tuttavia, è stata una grande illusione».
Resta l’euro, ma così non va. Dove è necessario intervenire?
«Bisogna pensare a una importante riforma dell’Unione europea e del fiscal compact oltre che a un riassetto dello statuto della Bce. Perché abbiamo creato una politica monetaria rigida accompagnata dall’austerity e da vincoli di bilancio, come il rapporto tra deficit e pil al 3% o il debito pubblico sotto il 60% del pil, che non sono altro che le medie della Germania. Francamente, non capisco perché questi parametri vadano imposti a tutti i paesi europei, che hanno culture e storie economico - sociali completamente diverse».
In effetti, qualche ammissione di responsabilità sembra arrivare da Berlino. La cancelliera Angela Merkel ha detto che serve «maggior coordinamento» su tasse, lavoro e pensioni.
«Giusto, purché la regia non sia a guida tedesca. In Italia non possiamo avere il sistema fiscale della Germania né il loro modello di relazioni industriali. Ma una vera coordinazione serve, non c’è dubbio».
Quali altri “ritocchi” suggerisce per non far morire l’Europa?
«La Banca centrale europea deve poter agire come la Fed americana e deve tornare sotto il controllo politico. Ma bisogna intervenire anche sul Parlamento europeo, che non ha poteri. Non può fare leggi, ma può solo dare consigli alla Commissione, composta da 27 commissari e 27 ambasciatori: lì si vota all’unanimità e prevale il peso delle lobby».
Quanto tempo ci vorrebbe per poter vedere i risultati di questo ampio percorso riformatore?
«In quattro o cinque anni si potrebbero tastare con mano i benefici».
Francesco De Dominicis

«DOPO AVER SPESO 750 MILIARDI SAREBBE DA MATTI CAMBIAR MONETA» –
«Il risanamento dei conti pubblici è costato a noi italiani finora 750 miliardi: se uscissimo dall’euro perderemmo tutto in un attimo». Marco Fortis, vice presidente della Fondazione Edison, è un difensore accanito dell’euro. Ma anche delle virtù della nostra economia: «Se ci fosse un capo-ufficio stampa dell’Azienda Italia bisognerebbe licenziarlo. Con lui il responsabile della comunicazione dell’Europa Spa».
Dove hanno sbagliato?
«Non sono stati capaci di trasmettere al mondo la vera situazione. E’ meno drammatica di quanto appaia».
Lo spiega lei ai disoccupati e ai giovani senza futuro?
«La situazione è difficile. Lo so bene. Non vivo sulla luna. L’euro ha bisogno di una manutenzione essendo stato pensato in tempi di vacche grasse sperando che la primavera durasse in eterno».
E ora che c’è il gelo?
«Bisognerà mettere le mani sulla governance dell’Europa. Probabilmente ci sarà da soffrire ancora qualche mese». Fino alle elezioni tedesche? «Certo. Penso che dopo il voto la signora Merkel abbandonerà un po’ delle sue rigidità. Oltretutto dettate più da ragioni elettorali che da convinzioni personali».
Dovremo tifare per la Cancelliera?
«Assolutamente si. Più larga la sua vittoria meglio sarà per l’Europa. La Germania non ha nessuna voglia di abbandonare l’euro. Alcuni esperti hanno calcolato che uscire costerebbe alla loro economia mille miliardi per dieci anni. Pensa che qualcuno abbia voglia di correre un rischio del genere. La difficoltà è spiegarlo bene. Ora che la locomotiva tedesca rallenta sarà più semplice».
E noi?
«Quelli che propongono di far uscire l’Italia dall’euro straparlano. Almeno il 30% del nostro debito è in mani straniere. Lo rimborsiamo in lire? E poi le importazioni: dove arriverebbe la nostra bolletta energetica? O il prezzo del pane visto che importiamo grano e farina? La domanda interna crollerebbe a pezzi».
Le esportazioni prenderebbero il volo
«Ma vanno bene anche adesso. Mi irrito sempre quando leggo dell’Italia che sta perdendo posizioni nel commercio mondiale. E’ vero il contrario».
Addirittura?
«Il made in Italy tradizionale come i servizi per la casa e la persona non conoscono crisi. La moda italiana ormai è un segno di distinzione in tutto il mondo. Per vedere il successo dell’arredamento del design basta venire a Milano durante il Salone del Mobile».
E poi?
«Meccanica, i mezzi di trasporto non auto (navi, yacht, elicotteri), gomma, chimica fine valgono, all’incirca 70 miliardi. Il made in Italy si sta specializzando e l’euro ha dato una grande mano».
I mercati, però non ci credono.
«Temono l’instabilità politica. Nessuna persona di buon senso può credere che l’Italia non onorerà il suo debito».
E allora?
«Ma come si fa a puntare su un governo che fra diciotto mesi, per ammissione stessa del presidente del Consiglio, potrebbe non esserci più. Hollande sta in carica cinque anni. Il premier britannico o il presidente spagnolo: una volta eletti non restano fino al termine della legislatura. In Italia, tranne poche eccezioni i governi durano un anno o poco di più».
Nino Sunseri