Repubblica + La Stampa 5/6/2013, 5 giugno 2013
GIOVANNA CASADIO
ROMA
— Nessun muro sulle riforme, e neppure sul semi presidenzialismo, che «non è il diavolo », però Epifani manda un avviso a Berlusconi: nel Pd ha pane per i suoi denti. «Siamo pronti a tutto, se dovesse prevalere negli altri la decisione di fare saltare il tavolo. Anche se la nostra idea di governo e il bisogno di riforme istituzionali richiedono un impegno di due anni», avverte. L’inaffidabilità del Cavaliere è davanti agli occhi, viste «le minacce nel rapporto con il governo, le sentenze attese, il problema dell’affidabilità tra problemi personali e interessi del paese sospesi tra due sentenze, quella della Corte costituzionale e quella della Cassazione...». Perciò Epifani ritiene che ci voglia subito una legge elettorale «di sicurezza»
e che tra gli iscritti, proprio a partire dalle proposte anti Porcellum e sulle riforme, si possa fare una consultazione. È il referendum chiesto dai due ordini del giorno presentati, quello di Fioroni e Civati e l’altro di Damiano, Chiti e Puppato. Accolti di fatto, anche se la conta sull’elezione diretta del capo dello Stato che sta agitando il Pd, è rinviata. Al più presto pure una legge sul conflitto d’interessi.
Ci sarà una direzione-seminario, con tanto di esperti invitati e, al tempo stesso, il referendum nei circoli. Nella prima direzione dell’era Epifani, il leader alla fine parla di sé come «segretario generale ». Risate e brusio nella sala del Nazareno: «Guglielmo, non sei più alla Cgil», gli ricordano in platea. Big presenti: Veltroni, D’Alema, Bersani e anche Renzi. Il sindaco “rottamatore” arriva direttamente da Vienna, ascolta attento soprattutto quell’annuncio che costituisce l’altro dato politico della giornata democrat: segretario e premier saranno ruoli distinti e separati. Si terrà il congresso entro la fine dell’anno e il percorso sarà deciso da una commissione ad hoc (che ha tempo 40 giorni) e di cui fanno parte dirigenti operativi, come il segretario siciliano Giuseppe Lupo, la bindiana Margherita Miotto, Nico Stumpo, Francesco Verducci, una quindicina in tutto. La divaricazione tra segretario e premier è anche una blindatura di Enrico Letta. Epifani spiega: «La contestualità è stata superata nelle scorse primarie ed è improponibile oggi, dal momento che abbiamo alla guida del governo Letta, che è stato il nostro vice segretario fino al mese scorso».
Renzi va via senza intervenire:
gli tocca decidere se scendere subito nella gara per la leadership del Pd o aspettare. Non parla nessun big. «La sensazione è che sia stata una riunione a bassa intensità, e che il grosso della discussione sarà dopo i ballottaggi», commenta Matteo Orfini, leader dei “giovani turchi”. Epifani punta a ricostruire un clima di non belligeranza nel Pd. Nomina una segreteria in cui sono rappresentate tutte le correnti del partito: restano Roberta Agostini, Fausto Raciti, Enzo Amendola, Cecilia Carmassi, entrano Matteo Colaninno, Alfredo D’Attorre, Antonio Funiciello, Andrea Manciulli, Catiuscia Marini, Alessia Mosca,
Pina Picierno, Debora Serracchiani, Simone Valiante. Ma i due ruoli-chiave, l’organizzazione e gli enti locali, sono affidati rispettivamente al bersaniano Davide Zoggia e al renziano Luca Lotti. Il segretario bacchetta sulle correnti: «Un vero problema è il rapporto tra correnti e organismi di partito, le correnti sono utili se orientano il dibattito e la scelta». C’è chi parla di «discussione in freezer», per dire che le questioni decisive sono congelate. Il segretario invita a impegnarsi per i ballottaggi e per risalire la china dei consensi: «Dovevamo andare a votare nella primavera del 2012», riflette. E sulle riforme l’altro appello:
«Bisogna tenerne fuori il governo e il Colle». Poi, a proposito del semipresidenzialismo: «È complesso da fare, io non sono ostile, non è il diavolo. Ricordiamo Calamandrei, la degenerazione parlamentare aprì la strada al fascismo». I dipendenti del Pd volantinano una lettera chiedendo solidarietà ai dirigenti, dal momento che rischiano il posto di lavoro con lo stop al finanziamento ai partiti. Epifani li rassicura, ma propone modifiche alla legge: un tetto alle donazioni e un meccanismo diverso rispetto al 2 per mille. Approvato anche il bilancio.
RENZI SI CANDIDA ALLA SEGRETERIA
GOFFREDO DE MARCHIS
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA
— «Il rischio che mi candidi alla segreteria del Pd c’è». Matteo Renzi è appena uscito dal ministero dei Beni culturali. «Stiamo cercando di salvare il Maggio musicale. Devo fare il sindaco prima di tutto». La campagna elettorale per sostenere i candidati del centrosinistra al ballottaggio è un altro sforzo che lo distrae dai problemi del Pd. «Mi attende ancora un lungo giro. Riparto da Brescia e continuo. A volte penso di essere l’unico a impegnarmi con questa intensità». Ma il tour serve anche per sondare il terreno in vista di una corsa che appare ormai certa. «Io insisto: non è una priorità. Ma ci sto riflettendo ». Anche perché non può durare in eterno il gioco di stare un po’ fuori e un po’ dentro la partita del futuro. «Mi chiamano in ballo su tutto, anche quando mi defilo, anche quando garantisco lealtà. Allora tanto vale...».
Gli amici del sindaco sono convinti che finirà così: Matteo candidato, Matteo segretario a
Largo del Nazareno. Della separazione stabilita ieri tra numero uno del Pd e premier gli interessa poco. «Non cambia nulla, tutti potranno correre alle primarie per Palazzo Chigi». Più significativa è la promessa solenne di Epifani sulla data del congresso: si terrà entro l’anno. Magari non a ottobre ma nel 2013. Giusto in tempo per organizzare una staffetta a Firenze dove si vota nella primavera del 2014. Renzi lascerebbe lo studio di Clemente VII senza strappi, mantenendo intatto il rapporto di fiducia con i fiorentini.
Il primo cittadino ascolta tutti, parla con tutti. Manda messaggi contraddittori. Un giorno sembra pronto a buttarsi, il giorno dopo teme le trappole di un Pd troppo diviso e troppo diverso da come lo vorrebbe per essere governabile. Deciderà da solo, come sempre. Ma l’orientamento sembra chiaro. «Io non faccio niente eppure mi tirano sempre in mezzo. Penso alla mozione Giachetti sul Mattarellum. Era un complotto mio e dei renziani, hanno detto. Un modo per far saltare il governo e la maggioranza con il Pdl. Quell’episodio mi ha dato particolarmente fastidio, anzi mi ha fatto arrabbiare di brutto. Ma quale complotto, che c’entro io con una battaglia parlamentare che Roberto porta avanti da mesi?». Ecco il punto.
Stando fuori, non esponendosi in prima persona, l’incubo è finire «nella palude democristiana. Fatta di immobilismo e sospetti, di accuse e ritrattazioni. Ma io non sono questo. Non ho mai fatto una battaglia alle spalle di qualcuno, ho sempre
messo la mia faccia. Potrei farlo anche adesso. Sto riflettendo su questo. E il rischio che mi candidi alla segreteria c’è».
Raccontano che Enrico Letta stia seguendo a distanza il percorso “travagliato” di Renzi verso la scelta finale. Con interesse
e anche con un certo favore. «Non so cosa pensi Enrico. Non ho parlato con lui della mia candidatura. Non ancora, almeno ». Renzi segretario, per il premier, potrebbe rappresentare quella «messa in sicurezza » di cui ragionano da tempo a
Palazzo Chigi. Dovrebbe essere però il frutto di un accordo, di un patto di non belligeranza che duri fino al 2015. Al termine dei 18 mesi per le riforme e del semestre di presidenza europeo dell’Italia. E nell’anno che verrà, come funzionerebbe la convivenza? Renzi segretario potrebbe dedicarsi a spiegare, in giro per il Paese, la sua idea di Pd, il suo progetto di un nuovo centrosinistra. Perché non c’è dubbio: il sindaco vuole rivoluzionare il partito, cambiarlo da cima a piedi. Ieri ha festeggiato la nomina di Luca Lotti, il suo “fratello” politico, in segreteria. Insieme hanno scelto la casella degli Enti locali. Un ruolo chiave per il Pd di Renzi, che punta la sua scommessa sugli amministratori del territorio contro il Pd dell’apparato e della nomenklatura. I sindaci sono la spina dorsale del partito che Renzi ha in mente. Hanno i voti, conoscono i problemi, prendono le decisioni velocemente. Sarebbero anche il simbolo di una forza politica più leggera e meno legata al correntismo.
La campagna congressuale
non è ancora pronta. Partirebbe a luglio, quando il Pd organizza le sue feste in tutta Italia. Ma Renzi non ci ha messo mano e come al solito vuole fare le cose in grande: la prima uscita, i luoghi da visitare, lo slogan. Aveva detto che da segretario sarebbe stato incompatibile con Letta. «Dovrei staccare subito la spina al governo. Meglio che sto buono a Firenze». Ma l’effetto delle sue dichiarazioni è stato lo stesso, in queste settimane: un pericolo per la tenuta delle larghe intese. Per questo ci ha ripensato. Due settimane fa ai suoi collaboratori spiegava: «Escludo una candidatura al 100 per cento». Nelle ultime ore, la versione è cambiata in «bisogna valutare la situazione ». L’ultimo colloquio con Massimo D’Alema, giovedì scorso, gli è servito per capire che l’ex presidente del Copasir non si metterà di traverso. Le voci della base sono in grande maggioranza a favore di un suo impegno diretto. L’apparato sa che se Renzi scende in campo «non ce n’è per nessuno». Sono segnali pesanti. Eppoi c’è la volontà di chiudere l’esperienza a Palazzo Vecchio nella maniera più naturale possibile. Senza ricandidarsi a sindaco. Le variabili su cui ragionare sono moltissime. Ma se Renzi dice che il «rischio c’è» vuol dire che ha già deciso.
ELISABETTA GUALMINI SULLA STAMPA
Ieri Matteo Renzi ha ripetuto che la sua candidatura alla segreteria del Pd «non è un tema prioritario». Giorni addietro aveva detto di considerare più importanti le scelte e gli orientamenti che dovrebbero maturare, non si sa come, all’interno del partito: «Farà un congresso serio o no? Accetterà la sfida del cambiamento? Ha capito di avere perso le elezioni di febbraio? E ha voglia di provare a vincere le prossime?».
Si tratta di domande pertinenti, non c’è dubbio. Ma le risposte non verranno dall’attuale gruppo dirigente. Renzi sa benissimo che a quelle domande oggi può rispondere solo lui. E proprio per questo la sua candidatura è il tema prioritario. Lo sa lui, e lo sanno gli altri. Il congresso sarà serio se vi si confronteranno proposte realmente alternative e candidati veri alla leadership, capaci di porre con forza la sfida del cambiamento. Una opportunità che di solito si dilata dopo una cocente sconfitta, se si intravede qualcuno che può riportare il partito a vincere, ma fa in fretta a richiudersi. Renzi dovrebbe sapere che non ci saranno per lui tappeti rossi e che le occasioni raramente tornano, in politica.
Il coro quasi unanime degli «ora tocca a Matteo», «è lui il leader del futuro» si è già quasi ammutolito. Dopo la direzione nazionale del Pd di ieri sera, dovrebbe essere ancora più evidente che l’attendismo non paga. Ne genera a sua volta dell’altro. L’incertezza ingrossa la voglia di annacquare il brodo, di stemperare il rendiconto dei leader che hanno fallito e la ricerca di nuove strade in una lunghissima liturgia congressuale di rito ortodosso. Le resistenze dal ventre molle del partito nei confronti del sindaco ci sono ancora, eccome, sebbene si manifestino con toni e strategie più morbide e con transfughi candidamente pronti a orientarsi, di ora in ora, verso un nuovo carro del vincitore.
Un primo chiaro segnale è il cosiddetto «congresso dal basso». Che sembra voler dire: giù le mani dall’organizzazione. Ancora non si sa a chi andrà il tassello astrattamente più rilevante della segreteria da qui al Congresso, se a Luca Lotti, come chiesto da Renzi o, come si mormora, a Davide Zoggia, molto vicino all’ex segretario. Ma nel frattempo Epifani ha proposto che il rinnovo delle cariche di livello provinciale e regionale avvenga in un momento precedente e distinto rispetto all’elezione del segretario nazionale. Che è come dire, lasciarle tutte o quasi nelle mani dell’attuale «patto di sindacato» e delle macchine interne consolidate, dato che tra gli iscritti, in assenza di una competizione tra indirizzi politici chiaramente alternativi, sono destinati a prevalere gli assetti esistenti.
Il secondo segnale è la riluttanza verso la leadership. La leadership è ancora un tabù per il Pd. Ha certamente ragione Epifani quando dice che il Pd è l’unico partito non personale (non è proprietà di nessuno). Ma è anche l’unico partito senza un leader. Andrebbe aggiunto con altrettanto vigore. O, che è la stessa cosa, con troppi leader, nessuno in grado di dare la rotta. Una zattera che sbatte di qua e di là con scarse possibilità di approdo. Non ci può essere visione senza un leader. Non ci può essere un progetto senza un centro. Nella «democrazia del pubblico», piaccia o non piaccia, il ruolo dei partiti come organizzazioni solide che aggregano e gestiscono il consenso è destinato a indebolirsi; è il leader con le sue caratteristiche personali a parlare direttamente all’opinione pubblica, a mettersi quanto più possibile in gioco davanti ai cittadini. Non c’è niente da fare. La propensione alla leadership del sindaco-arrembante al Pd non va proprio giù. Il partito del «noi» e del «tutti insieme» non la digerisce. E non si capisce come questo possa conciliarsi con l’appoggio a un governo che sta intraprendendo la strada del semipresidenzialismo. Una contraddizione esplosiva, su cui ieri sera il segretario ha frenato.
Tocca a Renzi a questo punto, se ne ha la forza, di interrompere la sindrome, già in corso, della normalizzazione. E cioè il ritorno a un partito non contendibile. Utile a garantire il governo che c’è, finché non arriva la prima tempesta che lo spazza via. Solo con un partito contendibile e con leader che si affermano in una competizione aperta si può veleggiare senza sbandare.
FEDERICO GEREMICCA SULLA STAMPA
Dice: «Io non tramo contro il governo, è perfino offensivo che lo si dica. Io sono quello delle battaglie a viso aperto, non degli agguati di nascosto. Guardi, sto tornando da Vienna, dal “Business of Luxury Summit”, dove ho spiegato che l’Italia sta cambiando, che ha un governo serio ed è un Paese dove si può tornare a investire». Pausa: «E mi dicono che tramo contro Letta». Pausa più lunga: «Sia chiara una cosa: io non tramo, ma non tremo. E visto che di qualunque cosa parlo mi sparano addosso, allora chiedo: se vogliono farmi la guerra loro, me lo dicano. Così mi regolo...».
«Loro» sarebbe il Pd: e quante volte, già durante le primarie, Bersani aveva polemizzato con Renzi per questo «noi» (i renziani) e «loro» (i democratici)... Eppure, è proprio per sostenere i candidati democratici ai ballottaggi che il sindaco di Firenzi, dopo la Direzione di ieri, si sottopone oggi a un nuovo tour de force: Brescia, Lodi, Salsomaggiore, Viareggio... Insomma: magari è pungente, sfuggente, ma non si tira indietro. E del resto, potrebbe essere un bel problema - per il Pd - un Renzi che dicesse «sapete che c’è, mi ricandido a Firenze, a Roma sbrogliatevela voi...». Infatti, anche l’ultimo sondaggio Demopolis per La7 sul premier che gli italiani vorrebbero dopo il governo di larghe intese, è inequivoco: Renzi 37%, Letta 20%, Berlusconi 18%...
Naturalmente, è vero: non è facile tenersi in casa uno come Matteo Renzi. Si prenda questa faccenda della sua ipotetica candidatura alla segreteria del Pd: ieri, prima dell’inizio della Direzione, lo attendevano in tanti ed era tutto un fiorire di «non può fare il misterioso», «ora deve dirci se si candida o no», «il Pd non può aspettare in eterno le sue scelte» e via discorrendo. Presupponendo, ovviamente, che Renzi sappia cosa fare. È molto probabile, invece, che non lo sappia affatto. Ed in fondo è comprensibile. Di fronte, infatti, ha due possibili partite (per la guida del Pd e per la premiership) delle quali non si conoscono i tempi, le regole e perfino i giocatori. Decidere, insomma, non è davvero semplicissimo: senza contare che in primavera ci sarebbero anche delle elezioni a Firenze...
È anche per questo che ieri è stato nuovamente evasivo sul tema («Ci sono questioni più importanti della mia candidatura a segretario»), tenendo piuttosto a far sapere che il clima che si sta creando attorno a lui non gli piace granchè. «Da dopo quella faccenda della mozione di Giachetti - lamenta qualunque cosa dica mi danno addosso. Sta diventando fastidioso... Senza contare che non vedo il vulnus, considerato che questi famosi “renziani” messi subito all’indice, poi in aula hanno disciplinatamente votato col gruppo Pd».
Non gli piace l’aria che tira. E forse non gli piace neppure un certo clima da «non disturbare il manovratore» che gli pare aleggiare lungo l’asse governo-Pd. «Se dire una banalità tipo “se il governo fa, dura; altrimenti va a casa” significa attaccare Letta, allora siamo alle barzellette. Qui la questione è semplice: qualunque governo ha un senso se realizza cose, non se vivacchia. E a proposito delle cose da realizzare, io credo che il punto centrale sia: per cambiare questo Paese basta il cacciavite o ci vuole la ruspa? Enrico pensa che un cacciavite sia sufficiente, io credo che occorra fare di più».
Ma questo, sia chiaro, non è un attacco al governo: «Io non ho alcuna intenzione - chiarisce Renzi - di fare la guerra a Enrico, ci mancherebbe. Così come non è che, da ragazzino, la notte sognassi di fare il segretario del Pd. Quindi stiano tutti più sereni, e vedremo nelle prossime settimane le cose da fare. Ma la pre-condizione è che finisca questa specie di tiro al bersaglio che parte appena io apro bocca: perchè, se devo dire la verità, sto cominciando a rompermi i... E non credo che a loro convenga».
«Loro». Di nuovo «loro». Ma del resto - annota Renzi - lui si sente spesso trattato come «uno che sta fuori», uno da cui guardarsi. È accaduto, in fondo, anche per la nuova segreteria nominata da Epifani. «Lo sapete: l’unica cosa che chiedevo, era di poter avere per un deputato a me vicino la guida del dipartimento organizzazione - racconta -. Il segretario ha detto no, e io gli ho replicato “nessun problema, resto fuori da tutto”... Epifani si è preoccupato ed è finita come è finita». Luca Lotti, però, non avrà l’organizzazione. Così come Roberto Reggi (coordinatore delle primarie) non entrò al governo e a Giuliano da Empoli fu negato un ruolo da sottosegretario alla Cultura... «Noi» e «loro», insomma. Dove «noi» - i renziani sono senz’altro inafferrabili e scaltri. Ma non scherzano nemmeno «loro» - i democratici - quando si tratta di consumare rivincite e piccole vendette...