Roberto De Ponti, Corriere della Sera 04/06/2013, 4 giugno 2013
IL BACIO AL PALLONE DI CAGLIERIS. COSI’ L’ITALIA CONQUISTO’ L’EUROPA
La pallacanestro italiana è un’immagine, raccontata da Aldo Giordani con la voce rotta dalla commozione: è la corsa di Charlie Caglieris con il pallone tra le mani, alzato al cielo prima e baciato come una bella donna poi, è l’abbraccio con Sandro Gamba e Tonino Zorzi davanti alla panchina azzurra, prima di lanciare quel pallone benedetto verso il soffitto del palasport di Nantes.
Sembra ieri, sono trent’anni: 4 giugno 1983, l’Italia conquista il suo primo oro europeo. Che tempi, quei tempi: gli azzurri arrivavano dall’argento olimpico di Mosca ’80, forti sì ma non favoriti, perché l’Europa era sempre stata una questione tra sovietici e jugoslavi. Dodici grandi giocatori, protagonisti nei propri club, capaci però di mettere da parte il proprio ego per costruire, con il contributo decisivo del c.t. Gamba, un gruppo perfetto dove ognuno stava al servizio dell’altro. E capaci di infilare 7 vittorie consecutive, dalla gara inaugurale di Limoges con la Spagna, decisa sulla sirena da un discusso canestro di Pierlo Marzorati («più che un terzo tempo, un giro di valzer» si infuriò il c.t. avversario Antonio Diaz Miguel), alla finale dominata, sempre con la Spagna (105-96), i tiri liberi conclusivi di Brunamonti e la corsa di Caglieris, tanto simile a quella di Marco Tardelli 11 mesi prima sul prato del Bernabeu.
E in mezzo, la partita, anzi LA partita, quella con la Jugoslavia di Petrovic e Dalipagic, quella della rissa, di un paio di forbici nelle mani di Grbovic, del calcio vigliacco del «pesarese» Kicanovic a Villalta e dell’inseguimento di Gamba. «Sono pagato anche per difendere i miei giocatori», spiegò il c.t. in un concitatissimo dopogara. E in quella frase c’era tutto lo spirito di un gruppo entrato nella storia dello sport italiano lottando e giocando come un sol uomo. «La squadra che saprebbe solo difendere segna anche 100 punti» sottolineò orgogliosamente Giordani in telecronaca. Era un altro basket. Era un’altra Italia.
Roberto De Ponti