Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 04/06/2013, 4 giugno 2013
LA LUNGA PARABOLA DI GIOLITTI MOLTI NEMICI, MOLTO ONORE - Nella sua recensione a un libro di Federico Lucarini su Antonio Salandra, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, Arturo Colombo ricorda che l’uomo politico pugliese rappresentò per l’Italia il liberalismo nazionale, un programma alternativo a quello di Giovanni Giolitti e responsabile dell’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915
LA LUNGA PARABOLA DI GIOLITTI MOLTI NEMICI, MOLTO ONORE - Nella sua recensione a un libro di Federico Lucarini su Antonio Salandra, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, Arturo Colombo ricorda che l’uomo politico pugliese rappresentò per l’Italia il liberalismo nazionale, un programma alternativo a quello di Giovanni Giolitti e responsabile dell’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915. Mi chiedo come mai, un secolo dopo, prevalgano ancora le tesi di quell’establishment prevalentemente laico e post azionista (i nipotini di Salandra e Salvemini) che continua a non prendere atto dei meriti dell’epoca giolittiana e delle responsabilità di una corrente politica che trascinò l’Italia nel conflitto con un vero e proprio colpo di Stato (anche se formalmente legalizzato da un Parlamento assediato e minacciato, anche fisicamente). Insomma, in estrema sintesi, forse aveva ragione Giolitti e avevano torto i liberal-nazionali. Ma fa grande fatica a emergere la figura di Giolitti, a mio parere uno dei pochi grandi statisti non accecati dal nazionalismo conservatore reazionario di buona parte della classe politica post risorgimentale. Angelo Rambaldi angelo.rambaldi@ior.it Caro Rambaldi, sulla figura dell’uomo di Stato piemontese esistono oggi, insieme a nuovi studi biografici, i numerosi lavori di Aldo A. Mola e del suo «Centro europeo Giovanni Giolitti». Palmiro Togliatti gli rese un inatteso omaggio dopo la fine della Seconda guerra mondiale e Gaetano Salvemini smise di considerarlo il «ministro della malavita». Ma è certamente vero che l’«uomo di Dronero», come veniva generalmente chiamato dalla stampa dell’epoca, ha portato con sé nella tomba alcune delle inimicizie e ostilità che avevano accompagnato la sua vita politica. Non piaceva a molti socialisti perché lo consideravano un seduttore e un corruttore, l’uomo che tentava di tagliare le unghie del loro programma. Non piaceva a Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, perché faceva troppe concessioni alla sinistra e ai sindacati. Non piaceva a Luigi Einaudi per le misure dirigiste e stataliste che avevano contraddistinto i suoi governi. Non piaceva ai militari perché aveva duramente criticato la mediocre organizzazione delle forze armate durante la guerra di Libia e dava la sensazione di non riporre alcuna fiducia nei quadri dirigenti dell’Esercito. Non piaceva al re perché la sua autorità oscurava quella del sovrano. Non piaceva a Gaetano Salvemini e ad altri intellettuali di sinistra perché faceva le elezioni, soprattutto al Sud, con le interferenze e le intimidazioni dei prefetti. Non piaceva a D’Annunzio perché non aveva esitato a ordinare il bombardamento di Fiume in cui il poeta era entrato trionfalmente con i suoi legionari nel settembre 1919. Non piaceva ai nazionalisti di Luigi Federzoni perché aveva cercato di evitare la guerra e perché il trattato di Rapallo con la Jugoslavia non aveva dato soddisfazione alle pretese italiane sulla Dalmazia. Non piaceva a Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare, perché la sua tattica, con i cattolici, era quella di mangiarli come il carciofo, una foglia alla volta. E non piaceva a Mussolini perché cercò di fare la stessa cosa con i fascisti. È probabilmente questa la ragione, caro Rambaldi, per cui il solo monumento a Giolitti, salvo errore, è il busto collocato nella sala consiliare del municipio di Cuneo. Durante il fascismo fu nascosto da una pesante tenda di stoffa. Oggi è nuovamente visibile. Sergio Romano