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 2013  giugno 04 Martedì calendario

QUEL CHE RESTA DI CESARE BRANDI

Arriva una nuova edizione del celebre Disegno dell’Architettura Italiana di Cesare Brandi, assente da almeno trent’anni (Castelvecchi, pagg. 512, euro 39). E verso la fine, appena prima di un’ovazione alla Piazza del Popolo di Valadier, nota al Palazzo d’Inverno di Leningrado «un errore grossolano di sintassi, che rivela la mancanza di un tirocinio». Cioè, le colonne binate al portone d’ingresso non corrispondono e non si trovano in asse con quelle della spartizione superiore.
Qui scatta una memoria di tanti anni fa. Ai tempi di Kruscev, la Scala diede un ciclo di spettacoli al Bolshoi di Mosca; e con un gruppo di Amici della Scala si passò a vedere Leningrado, guidati dal celebre architetto Tomaso Buzzi. Si arrivò, chi in wagon-lit “zarista”, in realtà sovietico, e chi in aereo, con le hostess che distribuivano bustine di carta velina contro gli schizzi d’inchiostro dalle stilografiche. Stavamo all’Astoria, e si veniva svegliati ogni mattina dagli inni patriottici.
Arrivati davanti al palazzo, l’architetto addirittura gridando chiese al gruppetto di piazzare le mani in orizzontale e poi in verticale davanti agli occhi. «Niente in asse con niente!», ripeteva. Aggiungendo: «E pensare che erano di Bergamo!».
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Quasi ad ogni pagina, soprattutto ai minuscoli risentimenti del Brandi, scattano le care memorie. Anche perché avevamo l’abitudine, soprattutto d’estate, di cenare fuori con Kikki Brandolini e Giovanni Urbani. In Piazza Navona si poteva ancora. E se Giovanni bofonchiava «la solita spocchia accademica», Cesare si alzava, faceva un giretto, e poi tornava per finire il suo piatto. Ma poiché usava termini come «astanza» e «attante», qualche irriverente collega canticchiava «nella stanza — del lattante — può entrare solo il Teatro La Mama».
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Questo Disegno muove i ricordi non solo quando il tram n. 2, sulla via Flaminia a Roma, fa una deviazione a causa del Tempietto del Vignola, dopo le soste alla casina della Filarmonica e alla palazzina di Pio IV. Camminando per Roma, in effetti le facciate illustri sono innumerevoli. E allora, via a Montepulciano, ove non solo «d’ogni vino è il re», ma notando molti paesani locali ai tavoli vicini si capisce che qui la cucina dev’essere addirittura «più eccellente» d’ogni gastronomia casereccia. E uscendo, subito la visione mirabile del San Biagio qua davanti. Ancora, i «grandi scaloni bolognesi». Ma a Piacenza, «l’enorme Palazzo Farnese, che sulle rive del Po, sta come una rovina, senza essere una rovina».
Si rammenta allora un ampio dipinto piacentino, con Elisabetta Farnese, accompagnata da una piccola economica Corte per divenir consorte del re di Spagna, Filippo V, vedovo d’una Savoia e residente a Bayonne o Pau. Ma dopo l’imbarco, lei scende. Preferisce andare per via di terra, con panico nella nobiltà genovese, tenuta ad ospitarla. Quindi, a Monaco, ricusa delle fanciulle Grimaldi che vorrebbero affibbiarle. E finalmente, incontrando prima la regina madre sua zia (e principessa Palatina autorevole come sua madre senza soldi a Parma), non appena le si presenta come camarera- maior l’onnipotente princesse des Ursins, non solo la mette alla porta. Addirittura le impone di andarsene subito, senza cambiarsi l’abito di Corte, in pieno inverno. Con gran soddisfazioni fra le Corti europee governate dalle Palatine. E assicurando il trono ai due figli, Carlo III a Parma e a Napoli e a Madrid, nonché Filippo di Borbone a Parma.
Quanto Vanvitelli a Caserta, dunque: con atrio ottagonale e scalone della Reggia, e le solenni gallerie, e le fontane in sequenza prospettica... E allora, via via fra la Cattedrale e il Palazzo Piccolomini di Pienza, e l’ala neogotica del Caffè Pedrocchi a Padova, dello Jappelli (di cui si potrebbe rammentare una fantastica sala da pranzo, solo con lesene di stoffa bianca, in una villa). E la Cappella Portinari, il Capitanato, il Priorato, il duca Sforza, le Papesse, i vari Santo Spirito, quel chiostro di Santa Maria della Pace (così vuoto e perfetto, nelle mie foto d’una volta, in giacca e cravatta), una «scultura spigolosa e franta», uno «schiacciato come emaciato e consunto », una «ibridazione in forma quasi botanica»... * * *
Chicche continue. «La cappella è costipata». «La maturazione è folgorante». «Una tematica dell’espansione che è la formulazione spaziale architettonica dell’effusione luminosa della scultura». «La grande piazza è interna ed esterna a se stessa, l’osmosi incessante fra l’invaso centrale e gli intercolumni multipli si istituisce come un innumerevole approdo, che per lo spostarsi dell’occhio dell’osservatore, ha sempre nuove confluenze e angolature diverse di luce e d’ombra». «Le architetture si muovevano in quello spazio come i plotoni in una piazza d’armi».
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Tantissimi anni fa, a una celebre mattinata domenicale all’Opera romana, si era convenuti per ammirare e applaudire le sculture scenografiche di Manzù per l’Oedipus Rex di Stravinskij. E c’erano praticamente tutti, da Brandi appunto ad Aurel Milloss a Luigi Squarzina a Roman Vlad a Palazzeschi che ricordava ancora una levatrice in una casina rosa lì davanti... Cenammo alle Colline Emiliane, accanto a un’altra allegra tavolata: Andreotti con l’intera squadra della Roma, che aveva appena vinto un importante match.
Molti anni dopo, al Palazzo Pubblico di Siena, incredibilmente tardi gli conferiscono la cittadinanza onoraria. E dopo una più che alata “lectio” di G. C. Argan, e qualche borbottio onorifico di Giacomo Manzù medesimo, tocca a me di concludere. Che fare? Improvvisai dieci minuti di buonumore.