Roberto Giardina, ItaliaOggi 1/6/2013, 1 giugno 2013
VUOI ESSERE TEDESCO? PUNTUALITÀ
Per diventare tedesco bisogna rispettare le antiche virtù nazionali, quelle indicate da Martin Lutero. Oltre ad obbedienza e laboriosità, considerate tipiche per i prussiani, anche la puntualità. «Wer deutsch bleiben will, muss pünktlich sein», ha intitolato per l’appunto un suo articolo il mensile The Germans, rivista interessante e utile per capire l’anima tedesca, se si sorvola sulla testata, chissà perché in inglese.
La Germania, come noi, rispetta lo ius sanguinis e non lo ius soli per concedere la cittadinanza.
Non basta nascere sul territorio nazionale per ottenere automaticamente il passaporto, come avviene negli Stati Uniti (anche gli yankees pensano di cambiare o attenuare la norma). Però i tedeschi non sono spietati burocrati all’italiana, e la pratica è più rapida e agevole. Dopo otto anni di permanenza, se non si sono commessi reati gravi, si può chiedere la cittadinanza, se si dimostra di conoscere a sufficienza la lingua, e superando un test di 33 domande facili facili, tipo «le donne sono uguali agli uomini?», «chi fa le leggi, il parlamento o il sindaco?». Chi è nato da queste parti, da genitori integrati, può chiedere il doppio passaporto anche dopo tre anni. Mi sembra ragionevole. Ma compiuti i 18 anni, ha cinque anni di tempo per decidere che cosa vuol essere: deve rinunciare a un passaporto. Se si lascia scadere il termine, sia pure di un solo giorno, si perde il diritto per sempre di restare Deutsch. E, come nel gioco dell’oca, torni alla casella di partenza.
«La legge è coerente e completa», ha dichiarato Eckard von Zeungen, dell’ufficio berlinese per l’integrazione, «ma è anche complessa ed è difficile seguirla». Però, da chi vuol diventare tedesco, ci si aspetta anche diligenza oltre che la puntualità. Il guaio è che i giovani, paradossalmente, confidano troppo nelle virtù prussiane, e si attendono di ricevere puntuali solleciti al momento dovuto. E questo non avviene. I tedeschi non sono più quelli di una volta. I treni giungono in ritardo sempre più di frequente, e il mio bus 109, quello che va dalla stazione all’aeroporto, ogni tanto salta una corsa. Normale a Roma, non in Prussia. Anch’io ho i miei pregiudizi.
I tedeschi sono puntuali anche nell’impuntualità, parola orrenda. Vi attendono per 15 minuti oltre l’ora fissata per l’appuntamento, né un minuto di più né uno di meno, poi se ne vanno. A me non è mai capitato. Io arrivo sempre in anticipo, non perché sia puntuale, ma a causa del mio destino esistenziale. Un siciliano che vive in Prussia è vittima dei luoghi comuni sui meridionali, vittime della siesta. Per sfatarli non mi resta che arrivare per primo. Ecco perché mi sforzo di essere puntuale. Direi che, spesso, sono l’unico a essere puntuale. Aspetto, anche più di quindici minuti, ma ho il piacere di intuire l’umiliazione negli occhi dei miei amici, prussiani e ritardatari.
«Scusa il ritardo», implorano.
«Che vuoi che sia», e sorrido come solo un magnanimo vincitore siculo può sorridere. All’Università, per conferenze e altri eventi, a volte nell’invito precisano «s.t.», sine tempore, loro amano il latino, cioè senza tempo per attendervi se arrivate in ritardo.
Non è previsto il quarto d’ora accademico, di ritardo autorizzato. Ma sempre più spesso il sine tempore si trasforma in uno strisciante cum tempore.
Certo, concerti e spettacoli teatrali iniziano al minuto spaccato. Solo perché attori e orchestrali, maschere e cassiere vogliono tornare puntuali a casa.
Alla Deutsche Oper dove ero giunto in anticipo (mi piace l’atmosfera dell’attesa in platea), le porte una sera restavano sbarrate. Le prove pomeridiane del prossimo spettacolo erano in ritardo. Per montare le scene di Rossini dovevano smontare quelle di Wagner. «Ma il regista è francese» mi confidò la maschera in un sussulto di disperato patriottismo. I teutonici anglofoni di The Germans hanno ragione: i burocrati prussiani chiudano un occhio, se i futuri tedeschi arrivano un quarto d’ora dopo.