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 2013  giugno 01 Sabato calendario

ORSI & TORI – Fabrizio Saccomanni è il miglior ministro dell’Economia che poteva avere il Paese in questo momento

ORSI & TORI – Fabrizio Saccomanni è il miglior ministro dell’Economia che poteva avere il Paese in questo momento. Per più ragioni: è un uomo che ha l’ottimismo stampato in faccia; ha esperienza operativa perché, a differenza dei colleghi che ha lasciato nel direttorio di Bankitalia, è stato operativo a livello globale quando di fatto era l’uomo più vicino al governatore Carlo Azeglio Ciampi nelle riunioni del Fondo monetario internazionale e quando è stato ai vertici della Bers, la banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo degli ex Paesi comunisti; ha gestito, come direttore generale della Banca d’Italia, la burocrazia e tutto il personale dell’istituto centrale e, come prima mossa, su quell’esperienza, ha piazzato uomini di sicura efficienza non solo nel suo gabinetto ma anche nel posto chiave della Ragioneria generale; ha equilibrio e cordialità; ha moltissimi contatti internazionali e conosce la grammatica e la sintassi dei vertici; non si lascia schiacciare dalle ideologie né di destra né di sinistra, né del centro. Un anno fa era l’unico a riuscire a offrire un sorriso alla platea terrorizzata dai dati che Ignazio Visco snocciolava nelle sue Considerazioni finali. Quest’anno non ha potuto replicare la sua iniezione di ottimismo, in omaggio alla tradizione per cui nessun membro del governo partecipa mai alle assemblee annuali della banca centrale. Anche Guido Carli non era incline a sorridere, ma la sua severità quasi sacerdotale iniettava la fiducia che si riceve quando si ha davanti un uomo di altissimo spessore. Ciampi sorrideva spesso e Saccomanni ha preso da lui. Visco, invece, non sorride quasi mai. E certo i dati e le parole che ha usato nella sua relazione di quest’anno, la seconda, non possono mettere allegria a nessuno in Italia. L’analisi è stata corretta, come si conviene a un grande studioso come lui, ma il Paese e in primo luogo le banche e i banchieri avevano bisogno, fra le righe, di qualche sorriso. Per rinascere l’Italia ha bisogno di ottimismo e fiducia. Converrà che chi non ha ottimismo e fiducia si prepari ad andare ad Asti a vedere dal 21 di giugno (avrà tempo fino al 3 novembre) la mostra intitolata «La Rinascita - storie dell’Italia che ce l’ha fatta», curata da Davide Rampello e promossa dalla locale Fondazione CariAsti. «Se il tentativo attuale del mondo produttivo italiano è quello di avviare una nuova fase di crescita e di sviluppo», sostiene Rampello che, lasciata la presidenza della Triennale di Milano, è ora curatore del padiglione italiano all’Expo del 2015, «questo percorso deve assolutamente riscoprire e raccontare alle nuove generazioni l’esempio storico più esaltante del successo italiano: il dopoguerra. Un ventennio in cui l’Italia ha donato al mondo intuizioni scientifiche e tecnologiche che hanno mutato il contesto globale; un ventennio in cui l’Italia ha inventato un nuovo modo di concepire la moda e il design, ha costruito, progettato, prodotto e generato futuro e progresso... Finita la catastrofe della Seconda guerra mondiale, la volontà del popolo italiano di ricostruire se stesso e il mondo intorno è dirompente ma anche leggera. Lo si capisce osservando le foto dell’epoca, gli sguardi ritratti, la voglia di stare assieme, anche quando è terminata l’euforia della liberazione, si respira leggerezza nelle osterie all’aperto e nei luoghi dove si balla, voglia di gioire e questo è un elemento importantissimo...». Appunto, la voglia di gioire è importantissima, pesando, come calcolano serie ricerche, per il 30% sul trend economico dei Paesi e dei popoli. Ma importantissima è anche la voglia di lavorare e magicamente la mostra si tiene anche a Palazzo Alfieri, dove Vittorio Alfieri scrisse la frase che ogni generazione dovrebbe leggere, essendosi fatto legare alla sedia per studiare e non staccarsi dalla scrivania: Volli, sempre volli, fortissimamente volli. Alfieri aveva la passione dello scrittore. Ecco, occorre che gli italiani ritrovino la passione per il lavoro, anche per i lavori (e sono tanti) che non piacciono più. Altra combinazione favorevole per una mostra che può valere, sul piano del messaggio agli italiani, più di qualsiasi relazione, è il nome dell’autore della descrizione di come l’economia italiana di quegli anni portò anche all’Oscar per la lira governata da Carli: il curatore è infatti Enrico Giovannini, ex presidente dell’Istat e ora ministro (per fortuna ottimista) del Lavoro. «Disponibilità di credito, l’impegno della società civile e un attenta politica di sviluppo», sostiene il ministro Giovannini, «favorirono negli anni dal 50 al 70 la ripresa dei maggiori gruppi industriali intorno al quale si forma una miriade di piccole e medie imprese, spesso organizzate in forma di distretto. La produttività cresce, gli utili aziendali vengono reinvestiti e il ciclo favorevole si sostiene da solo: più produttività, più vendite, più salari, più consumi, più utili, più investimenti. L’industria meccanica, anche in virtù della temporanea scomparsa della concorrenza tedesca, vive un momento d’oro. La siderurgia spicca il volo con l’ammodernamento del centro di Cornigliano e con la costruzione del centro di Taranto, inaugurato nel ’65. La produzione di auto e veicoli vive uno sviluppo poderoso. Fra il ’48 e il ’63 il prodotto interno lordo cresce al ritmo del 6%; negli stessi anni la produzione industriale quadruplica, crescendo a un ritmo superiore della Francia e del Regno Unito. L’Italia diventa la settima potenza industriale nel mondo...». E poi la crescita sostenuta non solo dal mercato interno, dove c’è fame di tutto e soprattutto voglia di crescere, ma anche dalle esportazioni, che fra il ’48 e il ’70 quadruplicano, diventando il fattore determinante del boom italiano. Fondato anche sui prezzi competitivi dei prodotti italiani, è grazie al costo del lavoro contenuto e poi alla creazione della Comunità economica europea (Cee), nel 1957, che liberalizzando la circolazione delle merci con la caduta delle barriere doganali consente all’industria italiana di avere mercati internazionali ampi per crescere. Un dato importante da tenere presente, oltre all’implicito messaggio che l’Europa, non politica ma economica, sia stata un vero fattore determinante di crescita: nel 1970 i mercati europei assorbono il 70% dell’export italiano, gli Stati Uniti il 15,8%, l’Asia e l’Africa il 6%. Cresce la fame di energia anche sulla spinta dei consumi casalinghi per l’arrivo degli elettrodomestici: il consumo più che raddoppia in dieci anni. E l’Italia va in auto verso il futuro: nel ’51 ci sono 9 auto ogni mille abitanti; nel ’61 diventano 48, nel ’71 si arriva a 209. E di conseguenza, o per necessità, si sviluppa il sistema autostradale, quintuplicando. Nel ’70 le autostrade arrivano a 4 mila km, grazie anche alla formula intelligente della costruzione da parte dell’Iri che di fatto opera con le logiche del project financing attraverso l’introduzione del pedaggio. Inevitabilmente cambia, come documenta il professor Giovannini, il volto del lavoro. Negli anni 50 l’agricoltura garantisce ancora il 52% dei posti di lavoro, mentre erano il 70% del totale gli occupati nel settore primario al momento dell’Unità d’Italia. Gli anni 70 vedono scendere gli occupati in agricoltura al 17% e inevitabilmente salire al 44% quelli dell’industria e al 38% quelli dei servizi. «...Nel 1959 gli occupati», ricorda l’attuale ministro del Lavoro, «sono 20,3 milioni; maschi per oltre 2/3; le persone in cerca di lavoro sono 913 mila, 4 su 10 sono donne. Le donne rappresentano l’80% dei 15,3 milioni di persone dai 15 anni in su che risultano inattive...». Sono numeri e percentuali che parlano da soli e che fanno capire quale dovrebbe essere oggi la strada da intraprendere. Anche perché si comincia a vivere, fin da quegli anni, sempre di più. Il primo censimento del 1951 evidenzia che gli italiani residenti sono 47 milioni. Nel 1971 sono già 54 milioni, grazie principalmente alla forte diminuzione della mortalità: vita media di appena 35,2 anni nel 1881 per gli uomini e di 35,7 anni delle donne; nel 1950 la vita media sale a 62,4 anni per gli uomini e a 66 per le donne; nel 1970 sale rispettivamente a 68,2 e a 74 anni. Il ruolo del progresso della medicina è fondamentale: nel 1955 gli istituti pubblici di cura erano solo 1.422, i posti letto 328 mila, i medici 19.179 e gli infermieri e le ostetriche 48.229. Si arriva così alla radice del boom della spesa pensionistica. Nel 1951 oltre il 90% degli italiani aveva meno di 64 anni e a godere di una pensione erano solo 3,7 milioni di italiani. Ma per l’invecchiamento, altro dato prezioso fornito dall’ex presidente dell’Istat, nel 1971 erano già 14 milioni: vuol dire che ogni mille abitanti 159 godevano della pensione, mentre nel ’51 erano solo 78 su mille. Ma già negli anni del boom si sono verificati squilibri fra le classi sociali e soprattutto fra Nord e Sud. E così insieme al boom economico c’è anche il boom dell’emigrazione: fra il ’51 e il ’70 ben 5,5 milioni di italiani si trasferiscono in un Paese straniero delineando un’analogia con la oceanica migrazione di 10 milioni di italiani fra il 1900 e il 1920. Essendo oggi l’Italia un Paese di immigrazione, non appare sorprendente che essendosi interrotto lo sviluppo ci siano tanti giovani disoccupati. Certamente non per colpa degli immigrati, che anzi svolgono lavori che gli italiani non gradiscono più fare. Ma questo è un commento di questo giornale, non del ministro del Lavoro, che è sempre sinceramente political correct. Con il boom sia pure così diseguale per milioni di italiani parte il grande sviluppo della televisione e delle vacanze. Fino a quasi la fine degli anni 50 andava in vacanza solo un italiano su 10. Solo sette anni dopo le percentuali sono doppie. Quindi deve cambiare anche il paniere dei consumi adottato dall’Istat. In otto anni, dal 1954 in poi, nel paniere entrano più di 200 prodotti, arrivando a 279. Aumentano le spese dedicate allo status economico e sociale: all’abitazione, all’abbigliamento, alla salute, al tempo libero. Ed è appunto il boom della televisione: gli abbonati alla Rai che nel ’54 erano 88 mila, ancora prima della fine del decennio sono 1 milione. Già nel ’64 il 50% degli italiani possiede un televisore. Con tutta l’influenza che il piccolo schermo si avvia a esercitare sugli italiani. Nel bene, con il maestro Manzi che alfabetizza il Paese, e nel male con la distorsione della realtà che spesso si verifica: e anche tale commento è di questo giornale e non del professor Giovannini. Il quale tuttavia non si esime dal domandarsi: e oggi? Ecco la risposta: «Gli italiani di oggi sono in un certo senso figli di quegli anni. La sferzata al miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie iniziata allora continua a crescere: oggi la speranza di vita è di 79,1 anni per gli uomini e di 84,3 delle donne, mentre la mortalità infantile si è ridotta di 100 volte rispetto alla metà dell’800 e di dieci volte rispetto a 30 anni fa. La spesa per i generi alimentari, che nel ’53 rappresentava più della metà della spesa familiare totale, oggi è ferma al 20%: gli stili di vita più orientati alla comunicazione, ai trasporti e al tempo libero affondano le radici negli anni del boom economico. Di quegli anni portiamo con noi anche i risvolti meno positivi: l’Italia è uno dei Paesi più densamente popolati e conta 200 abitanti per km quadrato contro i 114 della media dei 27 Paesi Ue; la quota di territorio a copertura artificiale è stimata pari al 7,3% della superficie totale, contro il 4,3% della media Ue a 23 Paesi. E il trend non si arresta: oggi rispetto al 2001 l’incremento complessivo di suolo urbanizzato è dell’8,8%, equivalente alla provincia di Milano, pari a un consumo di suolo di 45 ettari al giorno. Le diseguaglianze non sono state superate e occorre ancora lavorare molto per raggiungere il traguardo di un benessere equo e sostenibile». E quindi cosa occorre fare? La risposta è facile e tragicamente difficile: riprendere la via dello sviluppo, mettendo a frutto le capacità che gli italiani sanno esprimete che il programma della mostra curata da Rampello individua con precisione sottolineando e spiegando come si è affermato il made in Italy. All’inizio fu chiesto da inglesi e tedeschi che i prodotti italiani avessero l’indicazione di origine, in modo da indicare ai loro cittadini che non era un prodotto nazionale. Una diffidenza che con l’aumento della qualità, unita alla creatività, si è trasformato in un segno di esclusività e di garanzia della qualità stessa. Non solo nei prodotti ma anche nella cultura, che recupera le radici millenarie che hanno lasciato ai contemporanei un patrimonio immenso e non impiegato per il benessere dei cittadini. Detto in una parola, vuol dire turismo, turismo di qualità. Come del resto Carli, protagonista del boom, sottolineava ricordando che anche il boom spagnolo era stato sorretto dal turismo, pur avendo solo una frazione del valore del patrimonio artistico e culturale italiano. Uno dei governi Berlusconi aveva messo nel programma un’azione straordinaria del rilancio del turismo. Oggi la promozione dell’Italia verso i potenziali turisti è affidata a un budget di 4 milioni di euro, che giustamente l’Enit è imbarazzata a utilizzare nell’era della comunicazione, in cui anche i Paesi africani investono decine di milioni di euro. C’è da augurarsi che il presidente del Consiglio, Letta, lo comprenda e provveda. Non che la reindustrializzazione del paese, soprattutto nel senso del recupero di efficienza, non debba essere perseguita. Anzi. La richiesta del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, è più che legittima e va ascoltata. Ma intanto va messo a frutto ciò che nessun altro Paese ha. Il flusso dei turisti cinesi sta diventando consistente: 300 mila nel 2012, 500 mila attesi quest’anno, un milione nel 2015 per l’Expo di Milano. Che non a caso è stata indicata anche da Letta come l’occasione del riscatto. Ma mentre a Parigi la municipalità ha anche cambiato i flussi di traffico per favorire lo shopping dei turisti cinesi, mentre a Madrid El Corte Inglés ha addirittura predisposto un’entrata esclusiva per i turisti cinesi con orari adatti a loro, nelle città italiane d’arte e di shopping non c’è il minimo segnale, neppure una scritta, che agevoli e soddisfi la voglia di Italia dei nuovi padroni del mondo. Ha quindi fatto bene, anzi benissimo il governatore Visco ad affrontare di petto gli stereotipi lanciati dalla Germania per cui gli italiani sono più ricchi dei tedeschi, non facendo altro, così, che aizzare la diffidenza se non l’odio invece della concordia. Ha fatto bene Visco a dire che in realtà gli aiuti pubblici italiani alle banche rappresentano solo lo 0,3% del pil, mentre in Germania la percentuale è del’1,8%. Ha fatto bene a dire che oggi le banche italiane remunerano il capitale solo allo 0,4%. Ha fatto altrettanto bene a dire che però le banche italiane erogano prestiti solo a 14 volte il loro capitale mentre in Europa si è a 20 volte. Ha fatto malissimo a non dire una parola sulla politica, nefasta, che la Banca d’Italia sta imponendo alle banche attraverso la richiesta di svalutare del 47% gli immobili e che inevitabilmente porterà alla svalutazione del patrimonio immobiliare italiano, rendendo gli italiani più poveri per la felicità dei tedeschi. Il dibattito è aperto, ma intanto occorre mettere a profitto ciò che è già lì, di valore enorme, perché non richiede capitali ma organizzazione, direttive chiare, semplici, mentre, come spiega Guido Salerno Aletta, il Paese riammesso in serie A per il deficit di bilancio potrà essere presto rimesso in serie B per la mancanza di contenimento del debito. Una sorte inevitabile, come l’associazione L’Italia c’è sostiene dal settembre 2011 e come Salerno ripropone con tre idee che non è impossibile attuare. Il presidente Letta, pur nelle difficoltà in cui opera, deve avere più coraggio e determinazione: il debito va tagliato; la spesa pubblica va tagliata; le tasse vanno tagliate. Tutti tagli da fare subito e contemporaneamente.