Sara Bennewitz, Affari & Finanza, la Repubblica 3/6/2013, 3 giugno 2013
FIAT, PIRELLI, STM, BENETTON VINCE CHI PUNTA AL “CORE” MEDIOBANCA, OCCASIONI PERSE
L a lunga crisi degli ultimi sette anni ha cambiato il modo di fare business di molte aziende, ma non di tutte. I cataclismi spesso sono forieri di opportunità e la migliore degli ultimi tempi è stata colta da Fiat, che ha preso al balzo l’occasione di rilevare gratis il 35% di Chrysler, arrivando alla maggioranza del gruppo automobilistico americano con un investimento relativamente modico, e pari a circa 1,9 miliardi di dollari. M a anche lo scotto pagato nella disavventura Telecom, ha dato a Marco Tronchetti Provera l’energia giusta per rifocalizzarsi sul core business di Pirelli investendo con successo sul segmento di alto di gamma. In molti però hanno perso il treno del cambiamento annunciando rivoluzioni che non si sono ancora manifestate. E’ il caso di Finmeccanica, che rinvia il pareggio della divisione trasporti, così come posticipa un cambio di passo radicale da oltre cinque anni. La sua ex costola nei microprocessori, StMicroelectronics ha invece colto a pieno il senso di urgenza uscendo in perdita dalla joint venture con Ericsson nei cellulari (che secondo gli analisti aveva un valore negativo di 3 miliardi), ma incassando il plauso del mercato che ha apprezzato la scelta dolorosa e necessaria. Così come necessaria, dato il delicato equilibrio finanziario, appare a giudizio degli esperti l’operazione che porterà la Telecom Italia a scorporare la sua rete di accesso. Un passo così importante, e il primo che si verifica in Europa, viene inoltre portato avanti in un momento
delicato per il gruppo guidato da Franco Bernabè dato che si accavalla con la scadenza dei patti di Telco (la finanziaria che controlla il 22,4%, e che potrebbe sciogliersi a settembre) e con il mandato del management, in carica fino all’aprile 2014. Il comparto delle telecomunicazioni negli ultimi sette anni ha pagato gli eccessi dei sette esercizi precedenti vissuti pericolosamente a traino della bolla Internet. Tuttavia alcune aziende come At&t e Verizon, sono riuscite a salvarsi e diventare ancora più forti perché negli Usa la guerra e la competizione è stata fatta sui servizi e non sui prezzi, permettendo a due operatori di emergere e dividersi il mercato più importante del mondo occidentale. Ma anche nel Vecchio Continente alcune società hanno dato prova di visione e strategia: è il caso di Bt, che dalle stalle è tornata a rivedere le stelle, separando e investendo nella rete fissa e cedendo le attività del mobile nei tempi in cui il modello dominante era quello di Vodafone, che comunque si è salvata grazie alla diversificazione geografica. Lo stesso vale per Portugal Telecom, che ha una delle reti più efficienti in Europa e che in questi anni ha colonizzato il Brasile, vendendo sui massimi la sua metà di Vivo e reinvestendo in loco parte dei guadagni realizzati grazie a Telefonica. L’immobilismo e l’incapacità di reagire di fronte al perdurare della crisi ha paralizzato soprattutto le aziende controllate da tanti soci, un paradigma che vale in generale per le banche e per alcuni dei così detti salotti buoni tra cui RcsMediagrouop. Si è mosso meglio chi non aveva troppi azionisti da accontentare. Come le aziende della galassia Benetton, che quest’anno da una parte hanno garantito la crescita futura delle loro attività nelle infrastrutture fondendo Atlantia e Gemina, e dall’altra dopo aver diversificato con successo nei duty free, hanno deciso di separare quest’attività dall’Autogrill per dare anche alla ristorazione nuove opportunità di crescere grazie alle acquisizioni. In casa Berlusconi invece, il paradigma non ha funzionato perché l’onda di trasformazione che ha investito il settore media è stata superiore anche alle forze di una gestione efficiente come quella che da anno governa su Mediaset e Mondadori. Va detto poi che entrambe le aziende hanno fatto qualche scelta strategica poco azzeccata. Mediaset ha rilevato i contenuti di Endemol sui massimi, bruciando valore che avrebbe potuto destinare ad altre attività e Mondadori che ha gestito bene la diversificazione in Francia, ha invece investito più nelle radio di quanto non sia riuscita a fare nei contenuti digitali o negli e-book. E per quanto tutto il comparto media sia stato investito dalla rivoluzione digitale, alcune società sono state più attente a capaci di cavalcare l’ondata di rinnovamento, come le tedesche Axel Springer e Prosieben, che però hanno beneficato anche di un’economia più forte e di un mercato pubblicitario migliore rispetto a quello italiano, francese e spagnolo. Se le aziende con un unico proprietario hanno reagito meglio alla crisi, quelle poche public company di cui poteva fregiarsi Piazza Affari, hanno avuto un management poco determinato a guidare l’espansione. La Parmalat e la sua cassa sono finite dentro la pancia di Lactalis, mentre Prysmian è riuscita a portare avanti solo l’acquisizione di Draka e ora dovrà fare nuove operazioni straordinarie. Se Prysmian non vuole diventare preda, deve continuare a crescere per linee esterne e con la crisi del Vecchio Continente e il cambio sfavorevole alle esportazioni, il gruppo guidato da Valerio Battista dovrà combinare un nuovo matrimonio di livello a stretto giro. Il maggiore difetto che gli investitori esteri ascrivono alle aziende italiane è che se tutte a più livelli hanno colto l’occasione per mettere a punto sinergie e risparmi sui costi, solo poche hanno reinvestito le risorse risparmiate con i tagli per sostenere i ricavi futuri. Lo stesso effetto creato dal clima di austerity, che oltre a deperire l’umore, ha impoverito gli imprenditori anche delle ambizioni di tornare a fare impresa. Il finanziere Usa Warren Buffett ripete che non ama investire sulle aziende che propagandano maxi piani di tagli, perché dà per scontato che le politiche di contenimento dei costi vadano fatte sempre in qualunque ciclo di mercato. Buffett ama invece finanziare le aziende che hanno piani di crescita, dove le risorse sono messe a frutto. Un discorso a parte è quello che riguarda le banche e il settore finanziario. Per una volta all’estero - per colpa dei subprime, dei derivati, dei buchi causati da alcuni manager e di altre peripezie varie - non si è visto di meglio, anzi i risparmi degli italiani hanno tenuto in piedi i bilanci degli istituti tricolori. Ma in un contesto di tassi bassi e dopo che le aziende virtuose hanno disintermediato le banche per accedere al credito, il modello che si basa su sportelli e servizi va interamente ripensato. Non a caso formule innovative come Banca Mediolaunm e Azimut hanno avuto più successo degli istituti e dei gruppi finanziari tradizionali, con il limite che anche le iniziative virtuose come quella di Ennio Doris e di Pietro Giuliani sono rimaste profetiche solo in patria. Oltre il modello, anche la governance di molti istituti andrebbe riformata e snellita, solo che come dimostra l’esempio di Bpm, dove il piano di trasformazione in spa è stata abortito ancor prima che si svolgesse l’assemblea per votare il cambiamento, la voglia di riforme e di rinnovamento non trova riscontri nella pratica. Resta che dopo anni di ristrutturazioni, Unicredit sembra meglio posizionata rispetto a Intesa Sanpaolo che finora ha difeso egregiamente la sua leadership - verso il cambiamento. La qualità degli utili del primo trimestre dell’istituto guidato da Federico Ghizzoni, la profonda pulizia dei portafogli, la rifocalizzazione solo su alcune attività e la diversificazione geografica (un terzo degli asset sono in Germania) portano gli analisti a preferire Unicredit nel medio termine. I giudizi su Mediobanca sono invece divisi, per alcuni è stata il campione delle occasioni perse dato che negli ultimi sette anni ha sempre giocato in difesa, per altri invece si è mossa bene data la sovranità limitata del management sia per il peso delle partecipazioni, sia per quello dei suoi azionisti. Per gli analisti Mediobanca ha inoltre avuto successo con Che Banca e Compass mentre ha deluso nel private banking di Esperia. Dal nuovo piano industriale, che sarà presentato il 21 giugno, il mercato si aspetta comunque un cambio epocale. Come è successo alle Generali con Mario Greco, ora anche Alberto Nagel si appresta a rafforzare la divisione banca d’affari e le sue attività estere e ad alleggerire il portafoglio ad iniziare dal gruppo di Trieste, passando per Telco-Telecom e finendo con Rcs.