Alessandro De Nicola, Affari & Finanza, la Repubblica 3/6/2013, 3 giugno 2013
FAVOLE E NUMERI LA FACCIA TRISTE DELL’ITALIA
Favole e numeri è un bel titolo per un libro. Fa venire in mente il Messico e nuvole di Enzo Jannacci, un misto di ironia e tristezza. Ed, in effetti, ironia e un po’ di impazienza traspirano dal libro appena pubblicato da Alberto Bisin, professore di economia alla New York University ed editorialista di Repubblica. Bisin racconta una serie di falsi miti, "sentimenti di contrabbando" avrebbe cantato Jannacci, che riguardano l’economia mondiale e del nostro paese. Favole non basate sui numeri o sulle evidenze empiriche che intossicano il dibattito sui media e tra i politici. Se ci soffermiamo sulle notizie della settimana passata, troviamo la chiusura da parte della Commissione Ue della procedura d’infrazione avviata nel 2009 nei confronti del governo italiano per il deficit pubblico troppo alto. I commissari europei hanno constatato che l’Italia ha riportato il disavanzo sotto il 3% nel 2012 e che tale risultato dovrebbe ripetersi, salvo sorprese, nel 2013 e nel 2014, quindi complimenti e tanti auguri. Tuttavia, si odono come voci di sottofondo, sempre più rumorose e numerose, le lamentazioni di chi dice che è ora di voltar pagina, di smetterla con l’austerità insensata imposta dai tedeschi e di non considerare il famoso limite del 3% come una invalicabile linea del Piave. Vengono proposte ingegnose soluzioni, come il considerare gli investimenti dei fuori bilancio da non calcolare ai fini del deficit, salvo scoprire che sotto la voce "investimenti" si vogliono far rientrare, ad esempio, gli sgravi sulle assunzioni dei giovani che stanno agli investimenti strutturali come l’aceto al vino. Basta leggersi qualche riga di "Favole e numeri" per inserire nel giusto contesto tutto questo chiacchiericcio: "Si parla di misure per la crescita come di operazioni di politica economica disponibili, pronte in un cassetto (di cui, per qualche ragione, solo la Germania ha la chiave). Per quanto ostinata possa essere la signora Merkel nel suo rifiuto a prestarci la chiave, sarebbe meraviglioso se la crescita potesse essere ottenuta attraverso semplici misure di politica economica, magari quelle misure di sostegno alla domanda aggregata che molti auspicano. Non é così purtroppo". E non é così, perché di spesa pubblica e deficit l’Italia ne hanno avuti fin troppi, il che non ci ha risparmiato 20 anni di stagnazione economica e gli ultimi 5 di complessiva recessione. La crescita richiede ben altro, ricorda Bisin: flessibilità nel mercato del lavoro, libera concorrenza tra imprese, efficienza del settore pubblico. Per favorire tali condizioni é semmai necessario tagliare le tasse al fine di reperire capitale privato per investimenti e consumi a fronte di tagli della spesa pubblica, possibili e realizzabili abbattendo sacche di inefficienza che si annidano nel nostro bilancio pubblico. Procrastinare il riaggiustamento fiscale a recessione finita vuol dire rimandarlo ad libitum , ed è esattamente ciò che l’Italia ha fatto negli ultimi anni e che ad un certo punto i mercati non ci hanno perdonato. La parte acuta della crisi finanziaria é infatti iniziata con la pubblicazione della manovra finanziaria di Tremonti nell’estate del 2011 "che spostava il peso degli interventi di maggior rilevanza a dopo le elezioni. Un documento cioè che evidenziava nero su bianco la totale mancanza di credibilità del governo Berlusconi e del paese che esso rappresentava" . Favole. Altra notizia preoccupante della settimana: mai così alto il tasso di disoccupazione italiana dal 1977, con i giovani che hanno raggiunto la preoccupante soglia del 40%. Nel capitolo dedicato al problema, il docente della New York University ricorda che un’alta protezione del posto di lavoro fa sì che le imprese licenzino meno, ma assumano anche di meno (con un saldo finale negativo nel medio periodo), si riduca la produttività media del lavoro perché i lavoratori non sono in genere assegnati alle imprese la cui produttività più dipende dalle caratteristiche degli stessi ed in più non si possono spostare nel caso in cui nel corso di rapporto di lavoro emerga che non posseggono le qualità adatte. I dati empirici confermano gli assunti teorici e dicono che una maggiore protezione del posto del lavoro implica "una minore velocità di riallocazione dei lavoratori, una più lenta creazione di nuovi e distruzione di vecchi posti di lavoro, una maggiore disoccupazione per giovani e donne e la prevalenza di contratti a tempo determinato". Con buona pace di chi vuole stabilizzare il precariato abolendolo per legge. Favole e nuvole, la faccia triste dell’Italia, il vento suona la sua armonica, che voglia di piangere ho.