Francesco Manacorda, La Stampa 1/6/2013, 1 giugno 2013
«PER DARE PIU’ CREDITO ALLE IMPRESE CI SERVE L’AIUTO DI BRUXELLES E BCE»
Il banchiere - «ma banchiere avventizio», precisa divertito - che si entusiasma parlando di un albero a camme, è finito non a caso a guidare il consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Grande teorico dell’economia d’impresa, gran navigatore («iniziai con Mani Pulite, quando non avevano più figure spendibili. Prima stavo nelle retrovie») tra i flutti di Politica&Business, con un curriculum che affianca la presidenza di colossi pubblici come Iri ed Eni a quella della holding Atlantia, Gian Maria Gros-Pietro non si annuncia nella prima banca italiana come un presidente «di campanello», pronto solo a ratificare decisioni già prese. «Il mio motto è che l’amministratore delegato guida la società, il presidente guida il consiglio», spiega nella sua prima intervista dopo la nomina di inizio maggio.
Però, presidente, qui di consigli ce ne sono due. Il consiglio di gestione, con quattro manager e sei membri nominati dalle Fondazioni e quello di sorveglianza, presieduto da Giovanni Bazoli, dove 17 posti su 19 sono andati alle Fondazioni bancarie che assieme rappresentano solo un quarto del capitale...
«Sì, invece ci sono azionisti di mercato importanti che non hanno una rappresentanza diretta. Questo significa che nella gestione della banca si dovranno tenere presenti gli obiettivi di tutti gli azionisti. E sebbene nel sistema duale spetti al consiglio di sorveglianza di indirizzare le strategie del gruppo, penso che anche il consiglio di gestione abbia spazio per fare molte cose, dal disegno dell’organizzazione al monitoraggio della gestione. Ma si deve anche guardare all’azionariato futuro».
In che senso?
«Il ruolo delle Fondazioni è prezioso per la stabilità della banca, perché si tratta di azionisti stabili e pazienti. Ma una banca grande come la nostra, per svolgere il suo compito deve stare su mercato con le sue gambe ed essere attraente per tutti gli investitori che non abbiano obiettivi speculativi».
Significa anche che vedremo un’Intesa Sanpaolo diversa, senza più quelle operazioni «di sistema», da Telecom ed Alitalia, prive di ritorno economico?
«La banca è un’impresa, ma un’impresa particolare che raccoglie e alloca capitale, quasi tutto non suo ma dei depositanti, e deve sempre ricordare che lavora in un sistema economico. Dunque non può certo arrogarsi il diritto di decidere qual è l’interesse del Paese. Quello che invece può e deve fare è capire se le difficoltà di un’impresa possono portare problemi più estesi che colpiscono altre imprese sue clienti e muoversi di conseguenza».
In concreto però che farete su partecipazioni come Rcs e Telco? Nella casa editrice si sa già che parteciperete all’aumento di capitale «Il Ceo Enrico Cucchiani ha già detto, richiamando Guido Carli, che in via di principio le banche non dovrebbero stare nei giornali. Più in generale io penso che il mestiere della banca non è fare l’azionista di lungo periodo di imprese non bancarie. Poi, come dicevo, di fronte a una società che è in situazione difficile bisogna guardare ai propri interessi di creditori e di azionisti con un’ottica un po’ più allargata».
E per la scatola di controllo di Telecom?
Anche lì la nostra presenza in qualità di azionisti non punta a sostituire i soci industriali e nemmeno a condizionarli; è nata in un momento difficile e deve consentire alla società di perseguire un autonomo percorso di sviluppo, ottimizzando tutte le opportunità disponibili.
Lei studia da anni le imprese. Le stesse imprese che oggi ci dicono che il credito, o meglio l’assenza di credito, visto che le banche non ne danno, è uno dei grandi problemi italiani. E’ così o da banchiere la pensa diversamente?
«Non è vero che le banche non prestano. Anzi, il sistema creditizio italiano presta a imprese e famiglie 150 miliardi più di quanto raccoglie con i depositi. Ma le regole italiane e internazionali dicono, in estrema sintesi, che ogni istituto deve avere un livello minimo di capitale proprio rispetto ai crediti concessi. Dunque se un prestito non rientra e la banca deve far fronte con il suo capitale, con ciò riducendolo, anche la possibilità di fare credito diminuisce.
Le tanto temute regole di Basilea...
«Anche quelle. Regole che hanno effetti determinabili. In sintesi, oggi, a fronte di una determinata perdita su crediti accertata bisogna ridurre l’ammontare complessivo dei crediti concessi di circa dieci volte. Attualmente i crediti deteriorati in Italia pesano oltre il 13% del totale dei crediti e dunque proprio aver concesso prestiti che oggi sono in difficoltà è il punto di debolezza delle nostre banche. Insomma, mi pare che oggi fare credito a una clientela che da un lato è rischiosa e dall’altro deve essere sostenuta nell’interesse del sistema economico non può essere un onere che spetta solo ad alcune banche».
E a chi altro dovrebbe spettare questa attività, che in tempi buoni ha portato anche ottimi guadagni alle banche e ai loro azionisti?
«Lo dico da economista, non da banchiere, ma per avviare la ripresa sarebbe una bella cosa che si istituissero meccanismi di garanzia dei crediti simili a quelli che sono i Confidi italiani, i consorzi che garantiscono gli affidamenti alle imprese prestando garanzie supplementari che consentano alla banca di non avere tutto il rischio».
Ma scusi, non è il cuore dell’attività bancaria valutare il merito di credito dei clienti e assumersi il rischio di concedere il credito?
«Chiediamoci se prestare a imprenditori che stanno attraversando un periodo di grandissima crisi è un mestiere di banca o di sistema. Strumenti a livello nazionale o meglio ancora a livello europeo che consentissero di ridurre il rischio aiuterebbero tutto il sistema economico».
E chi dovrebbe farsi carico del rischio residuo?
«Dovrebbero essere istituzioni che vedano i fenomeni a livello di sistema più di quanto possa una singola banca. Penso alla Bce o alla stessa Unione europea, o magari alle due insieme».
C’è il rischio che «emergano situazioni problematiche» tra le banche «indebolite», ha detto il Governatore. Voi avete bisogno di altro capitale? E il settore?
«Intesa Sanpaolo non ha bisogno di altro capitale, perché rispetta già oggi i parametri più stringenti di Basilea 3, che entreranno in vigore solo nel 2019. In più, la Banca non ha mai mancato di accantonare fondi adeguati a fronteggiare i rischi connessi all’economia reale. Vogliamo continuare a farle credito e quindi ci equipaggiamo a dovere: il nostro tasso di copertura dei crediti deteriorati è il 43,3%, superiore alla media del sistema (circa 35%). Non credo che neppure il settore nel suo insieme ne abbia bisogno, dal momento che il livello di patrimonializzazione delle banche italiane si compara favorevolmente con quello medio europeo.
In Intesa Sanpaolo state cambiando molte cose: a partire dal fatto che le medie aziende passano sotto la Banca dei Territori. Con quali obiettivi?
«Non è questione di spostare clienti da un segmento all’altro della banca, ma di cambiare livello di accesso con il risultato atteso di incrementare tantissimo l’attività della banca. Unire le medie imprese alle piccole significa dare a tutte lo stesso livello di servizio, visto che proprio le Pmi sono quelle che funzionano meglio e rendono competitivo il sistema».