Massimo Gramellini, La Stampa 1/6/2013; Paolo Manzo, La Stampa 1/6/2013; Alberto Mattioli, La Stampa 1/6/2013, 1 giugno 2013
ITALIANI, NUOVI MIGRANTI SULLA VETTA DEL MONDO
BRUTTA CIAO DI MASSIMO GRAMELLINI -
Oggi il Buongiorno ce lo dà il lettore Antonio Cascio. Racconta di un italiano che se ne va e non è un bel buongiorno, almeno per chi resta. In questa storia riconoscerete un amico, un parente, forse voi stessi. Il mio augurio è che qualche politico la legga e la trasformi nella sua ragione di vita, facendo il possibile, ma anche l’impossibile, per fermare l’emorragia di saperi, speranze ed energie che sta dissanguando la terra in cui siamo nati e in cui vorremmo continuare a vivere.
«Questasera andrò a festeggiare la partenza di un caro amico di 38 anni, che domani prenderà l’aereo destinazione Singapore. Lì lo aspetta un lavoro qualificato, pagato, dignitoso, di alta specializzazione. Un lavoro che ha cercato in Italia per troppo tempo perché, per l’ennesima volta, l’azienda per cui lavorava ha chiuso o delocalizzato. Dovrà occuparsi di internazionalizzazione di un prodotto - tipico italiano, ma non italiano - per i mercati emergenti. Sono ovviamente contento per lui, ma stasera, con gli amici di infanzia, non so ancora se festeggeremo un nuovo inizio o intoneremo l’ennesimo «de profundis» della mia generazione. L’ennesimo, perché non è il primo amico che parte: ne ho in Francia, in Svizzera e tutti con egregi titoli di studio, competenze e referenze. Tutti partiti perché «qui non trovavano».
Ho purtroppo l’impressione che i miei cari amici non siano altro che gli avamposti del nuovo emigrante italico. Adesso partono i più bravi, i professionisti, «quelli che hanno mercato», domani toccherà ai disperati. Ma come posso biasimarli? In fin dei conti lasciano un Paese moribondo, senza speranza, senza futuro, dove addirittura le newsletter per le ricerche di lavoro sono a pagamento (sembra una tassa sulla speranza, o peggio, sulla disperazione). Dove le retribuzioni sono le più basse d’Europa e cambiare lavoro è un lusso soltanto pensarlo (ma come puoi minimamente decidere di ricominciare quando hai 40 anni, genitori anziani, figli piccoli e una pressione fiscale che supera il 50%?). Dove il domani fa solo paura e si sono sacrificate intere generazioni sull’altare del «diritto acquisito» e dello «scatto d’anzianità». Un Paese apparentemente fondato sulla famiglia perché il termine «nepotismo» potrebbe suonare male. Credo che ormai non ci siano più parole per definire la nostra classe politica, avviluppata su se stessa ed esclusivamente concentrata sulla propria sopravvivenza, troppo occupata a discutere sul sesso degli angeli, sulle guerre interne, sul reciproco discredito, paralizzata, incompetente e, mi viene da dire, senza figli da salutare. Mi sento sconfitto, avremmo bisogno di un nuovo domani, di speranza, di futuro. Io mi limito a fare studiare l’inglese ai miei figli, sperando che un giorno, almeno loro, possano raggiungere i miei cari amici non più vicini e troppo lontani. Buon viaggio, «Vecchio».
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«SCONFIGGERO’ LA LEBBRA, GRATIS» DI PAOLO MANZO -
Per me il Brasile è stato uno choc e ancora oggi, da italiano, mi sconvolge vedere tanta differenza sociale. È da qui che nasce il mio desiderio di trasformare profondamente le cose. Dal di dentro». Marco Collovati, 44 anni, di Roma, a Rio de Janeiro è sbarcato nel lontano 1999. Aveva 29 anni, con in tasca una laurea in medicina e chirurgia presa all’Università di Firenze e un sogno nel cuore: lavorare con il celebre chirurgo plastico Ivo Pitanguy.
«Era un’icona, un simbolo nel mondo intero» ricorda oggi Marco. Che grazie alla sua OrangeLife, una società di analisi diventata famosa nel mondo per lavorare soprattutto sulle malattie dimenticate, è finito addirittura sulle pagine del «New York Times». Nel 1999, però, non fu così semplice, anzi tutto sembrava in salita, nonostante il grande entusiasmo e le mille speranze. Appena arrivato Marco non parlava neanche una parola di portoghese e dovette subito fare i conti con un Brasile già inaspettatamente caro, a causa del cambiamento della valuta nazionale, da cruzeiro a real. E così, senza pensarci troppo, dovendo sopravvivere con l’equivalente di 200 euro al mese, si ritrova in favela, il Pavão-Pavãozinho. Quanto basta per mangiare e dormire in una stanza dignitosa. «Si sentivano colpi ovunque la notte e io ingenuamente credevo fossero fuochi d’artificio, erano invece sparatorie continue. Al Brasile dovevo ancora abituarmi». Ma il sogno non svanisce. Di giorno lavora come un matto per quello che di Pitanguy è uno dei simboli più importanti, la Santa Casa da Misericordia, una sorta di ospedale per poveri dove il celebre chirurgo plastico ha salvato gratis la vita a migliaia di poveri e dove ancora oggi promettenti futuri medici fanno la fila per prestare volontariato. «Io lavoravo in medicina generale, Pitanguy aveva lo studio proprio accanto al mio. Era una specie di Papa per tutti noi. Ho imparato molto».
Inebriato dal Brasile e dalle nuove possibilità che la chirurgia plastica stava aprendo, Marco Collovati propone una sua speciale interpretazione del settore. «Sono stato il primo nel paese del samba a puntare sui trattamenti estetici, come il botox, quando per i colleghi brasiliani sembrava un’offesa alla professione». E così, insieme al suo socio brasiliano, il chirurgo Rawlson de Thuin, eccolo avviato a una carriera fulminante grazie alla quale in pochi anni diventa il punto di riferimento per le signore ricche del Paese, desiderose del ritocchino in più. Ma a Marco non basta. «Nel cuore sentivo che quella non era la mia vita, volevo qualcosa di diverso per me perché l’esistenza corre veloce e in un attimo ti ritrovi a dover fare i conti con quello che hai fatto di veramente importante» racconta.
Complice un incarico governativo, quello di consulente internazionale dello sviluppo economico per lo stato di Rio, Marco comincia allora a vedere di nuovo da vicino, ogni giorno, l’altra faccia del Brasile, i milioni di poveri colpiti ogni anno da malattie che da noi in Europa sono solo un brutto ricordo. Lesmaniosi, dengue, malattia di Chagas. E lebbra, tantissima lebbra che qui perché spaventi meno chiamano con un altro nome, anseniasi. «Lo si racconta poco ma il Brasile è il secondo al mondo per numero di malati di lebbra dopo l’India e addirittura il primo per i nuovi casi». Nella sola Rio Marco ne ha contati a centinaia.
«Ho una figlia di tre anni e mezzo e volevo che mi ricordasse per qualcosa di buono, non per i soldi o le case che le avrei potuto comprare». Da qui l’idea, subito un successo, di creare 4 anni fa un laboratorio di analisi, OrangeLife, privato ma che reinveste nel sociale tutti i guadagni. «Vuol dire che se vendo un milione di test di gravidanza ai privati tutto quel danaro lo reinvesto in ricerca e test che possono salvare la vita a milioni di persone». Oggi l’azienda di Collovati, dove lavorano 35 persone, fattura 4 milioni di euro l’anno, vende in tutto il mondo e dallo scorso aprile fino al prossimo luglio metterà a disposizione delle classi più socialmente disagiate un milione di test per la dengue.
«Con il mio lavoro ho imparato che stando in mezzo a chi soffre si diventa più umani e che dove la miseria è maggiore cresce la ricchezza interiore delle persone che s’incontrano». È per questo che a chi gli chiede come vede la sua azienda tra 5 anni risponde con entusiasmo: «fallita. Perché vorrebbe dire che ho avuto davvero successo, riuscendo a sradicare queste malattie “dimenticate”, ma che qui fanno ancora strage della popolazione».
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LA BERGAMASCA CHE FA QUADRARE I CONTI DEL LOUVRE –
L’ antibambocciona si chiama Claudia Ferrazzi. Di mestiere fa l’«administrateur général adjoint» del Louvre, cioè è il numero tre nella scala gerarchica del museo più importante del mondo. La notizia è che ha 36 anni e non è nata a Parigi ma a Bergamo. E un conto è fare una grande carriera nell’economia globalizzata, un altro, da straniera, nel sancta sanctorum della grandeur francese, il fiore all’occhiello del prestigio nazionale.
Lei, che ha trovato anche marito (francese) e il tempo di mettere al mondo due figlie, la racconta come se fosse normalissima. Papà chirurgo, mamma insegnante, liceo classico e laurea in Scienze politiche. «E poi a Bruxelles, perché erano gli anni in cui c’era ancora il mito del “concorsone” europeo». Un master tira l’altro, le offerte nel privato non mancano, ma la giovin signora scopre che quel che le piace davvero è l’amministrazione in generale e quella pubblica in particolare. «Però di grandi scuole da frequentare non ce n’erano e non ce ne sono poi molte». Meglio puntare in alto: l’Ecole nationale d’administration, la mitica Ena, fucina della classe dirigente e scuola dei presidenti (l’ha fatta anche Hollande, Sarkozy no e anche per questo le élite francesi l’hanno sempre considerato un alieno).
Ogni anno, ci sono tremila candidati per 80 posti. Naturalmente Claudià vince il concorso e si diploma nella promozione «René Cassin» del 2003. Giusto in tempo: l’anno seguente, la pubblica amministrazione francese si apre anche agli stranieri. Ferrazzi viene assunta al ministero dell’Economia, alla non meno mitica Ispezione delle finanze. Dal 2011 è al Louvre, incaricata, fra le altre cose, di far quadrare i conti. In effetti, lei non è l’artista, ma la manager. «Con il mio capo, devo soprattutto coordinare le 29 direzioni del museo». Però confessa una passione per «Amore e Psiche» di Canova, «perché non è solo una statua splendida, ma fa pensare».
Un cervello in fuga? «Non esageriamo. Non mi considero né un cervello né in fuga». Non sia modesta... «L’importante è sperimentare più di un sistema educativo. Quello francese ha due meriti. Il primo è che è molto pratico. All’Ena non solo fai degli stage, ma ti mettono, già da studente, in una situazione professionale. Per dire: ti occupi di politica internazionale? E allora scrivi una nota come se dovesse davvero arrivare al ministro degli Esteri. Secondo merito: il sistema è selettivo. È anche un limite perché si gioca tutto da giovani: se parti bene vai lontano, se parti male non recuperi più. In Italia, invece, negli studi non c’è selezione. La cultura generale è in media superiore. Ma la selezione la fa, spesso brutalmente, il lavoro».
Adesso, madame Ferrazzi gestisce il Louvre, un museo che incassa, da solo, più di tutti quelli italiani messi insieme. «Be’, anche perché è enorme. È chiaro che è più facile trovare fondi per un museo che fa da solo dieci milioni di visitatori all’anno che per dieci che ne fanno uno ciascuno. E poi il Louvre ha capito almeno un decennio fa che era irrealistico pensare che i contributi pubblici sarebbero cresciuti. E ha lanciato una grande operazione di mecenatismo che non riguarda solo le grandi imprese ma anche i privati, piccoli e piccolissimi compresi. “Tous mecènes”, tutti mecenati: anche se regali un euro o due. Infine, eccellente il sistema dei “fondi di dotazione” inventati tre anni fa: il patrimonio è intoccabile, si spendono solo gli interessi. Chi dona sa che investe sul futuro». Anche per questo, e non solo per la Gioconda, la griffe Louvre è così forte.
In più, la catena di comando è chiara. «In Italia il problema è sempre chi fa cosa. Chi comanda? Chi prende le decisioni e se ne assume le responsabilità?». Allora dica qual è la prima cosa che farebbe se diventasse ministro dei Beni culturali. «Metterei ai posti importanti una generazione di under 50».
Sorpresa: l’italiana che ce l’ha fatta ha fiducia nei giovani che non riescono a fare niente. «Non è colpa loro. Quella che finisce di studiare adesso è una generazione da ammirare, quasi eroica. Questi ragazzi trovano una situazione terribile, la crisi, i posti migliori tutti occupati, eppure hanno voglia di battersi». Dia loro un consiglio. «Di partire, di andare a studiare all’estero, di fare confronti ed esperienze. E poi di tornare in Italia per metterle a frutto». Lei tornerebbe? «Sono italiana, certamente».