Francesco Cevasco, Corriere della Sera 03/06/2013, 3 giugno 2013
ZINCONE, IL MAESTRO IMPREVEDIBILE CHE AVEVA IL CORAGGIO DELL’UMILTA’
Se parliamo di Giuliano Zincone, giornalista del «Corriere della Sera», bastano due date: 1939-2013. Quella di ieri e quella di oggi. Il resto, la sua storia, è sì compresa in queste due date, ma fa parte di un mondo, di un mondo che non tiene conto, non teneva conto, di tempi e spazi. D’altra parte lui era un cugino di Samuel Beckett, un altro cui tempo e spazio non interessavano più di tanto. Quindi, Zincone. Proviamo a raccontarlo. Come piaceva a lui raccontare le storie che aveva in testa.
Per esempio: siamo nel 1977, nessuno, almeno nei giornali borghesi, si occupa con passione di morti sul lavoro. Lui fa un’inchiesta e poi un libro: ma come? Quello snob liberale si appassiona tanto a quei poveracci? Zincone è sempre stato così: lo pensi in un modo e ti compare in un altro, magari l’opposto. Ma è anche capace di raccontare l’opposto di se stesso.
Nel 1979 scrive un destabilizzante articolo di fondo, quello più importante del giornale, sulla presunta «liberazione» del Vietnam. Finisce con una parola: «Orfani». Una parola che racchiude tutto il senso della disillusione: «Io, come molti altri, ho avuto un anello di lega leggera con la scritta Flnsv: Fronte di liberazione nazionale del Sud Vietnam… Io seguivo i cortei dei ragazzi che cantavano: Vietnam vince perché spara… Io mi sono fatto stampare sulla camicia il profilo della guerrigliera vietnamita, e immaginavo che i combattenti vestiti di scuro fossero angeli che passavano senza ferire nelle foreste di caucciù, tra gli alberi bruciati dal napalm, sopra le stragi che le televisioni americane trasmettevano ogni giorno, con sincerità dovuta alla libera concorrenza». Zincone ha avuto il coraggio di scrivere, di scrivere non soltanto di pensare, che quella era proprio una grande illusione.
Voliamo sopra un decennio: Zincone, il grande inviato speciale del «Corriere della Sera», carica nel piccolo bagagliaio della sua «Zincomobile», una piccola Porsche rossa che puzzava orribilmente di benzina, il suo snobismo che diventa all’improvviso vera umiltà, e va a fare il direttore del «Lavoro» di Genova. Un piccolo giornale pieno di gloria (lo aveva diretto anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini), ma conciato male.
Lo rimette a posto (anche come arredi: eleganti pareti grigie, tubi del riscaldamento gialli, archivio che i padroni volevano buttare via salvato da lui, pale di elicottero appese al soffitto per assicurare l’aria fresca, come in Vietnam, appunto). Ma esagera: continua a fare il giornalista vero e onesto. E sfida la P2. Che oggi ci fa ridere, ma allora era un grosso centro di potere, vero potere. E Zincone salva una vita umana. Quella del giudice Giovanni D’Urso sequestrato dalle Brigate rosse nel dicembre del 1980.
Quei deficienti delle Br, in cambio della pubblicazione su un giornale di un comunicato dei detenuti nelle carceri speciali di Palmi e Trani, erano disposti a liberare il magistrato anziché ucciderlo. Zincone lo pubblica quel comunicato: proprio in fondo a una pagina di fumetti, in corpo 5 (che vuol dire tanto piccolo da essere quasi illeggibile). Zincone «frega» le Brigate rosse, ma la P2, che non voleva «cedere ai terroristi», «frega» lui: lo caccia dalla direzione del «Lavoro».
A proposito, adesso bisogna dare la parola a uno dei suoi due amici: Antonio D’Orrico. Dice D’Orrico: «Giuliano mi ha insegnato una cosa: prima di lasciare un posto devi sempre fare la pipì». Qualcuno ha provato a fare la pipì addosso a Zincone, come quel tipo che, citando l’improbabile rapporto Mitrokhin, lo accusò di essere una spia dei sovietici. Rideva quel liberale di Zincone e parlava del Milan calcio: «Anche se c’è Berlusconi presidente, mi sembra un discorso piu’ serio».
Zincone era, è, uno scrittore maverick, cioè anticonformista, indipendente, individualista, cane sciolto. I suoi testi teatrali raccolti sotto il titolo Lo stivaletto malese, il poema Giovanni Foppa vuole cambiare vita, il romanzo Niente lupi, i racconti Palazzo Cuccumo, la psicanalisi del papa in Vita vita vita!, il calambour di Ci vediamo al Bar Biturico, il sofferto Miele delle foglie girano ancora nell’aria di chi legge i libri, libri così apparentemente diversi tra loro.
D’altra parte Zincone era uno che, quando la chiacchiera ideologica diventava inutile, troncava la discussione dicendo: «Qui, voi, finite in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione… Troppo comodo».
Zincone era, è, anche un uomo elegante. Sosteneva tesi estreme, controcorrente (e non parliamo soltanto di politica), ma lo faceva con garbo aristocratico. Diceva le «peggio» cose, cose scandalose, ma mai, mai condite con una parolaccia, una volgarità. E se la parolaccia la usavi tu, che parlavi con lui, ti zittiva con la citazione di un filosofo, spesso francese. E poi ai suoi giornalisti dava anche lezioni di abbigliamento: d’estate ci si veste con polo bianca o color pastello, pantaloni di cotone, scarpe da tennis (ma soltanto di una certa marca). L’eleganza era parte della sua prassi quotidiana. L’eleganza che aveva addosso, nei vestiti, l’eleganza che aveva addosso nel suo modo di parlare, l’eleganza che aveva dentro il suo modo di scrivere.
Francesco Cevasco