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 2013  giugno 03 Lunedì calendario

PERCHE’ VEDIAMO UN VOLTO UMANO IN UNA FOGLIA O SULLA LUNA

Sarà capitato anche a voi. Scorgere un volto guardando la Luna, riconoscendo occhi e naso. Individuare le sembianze di qualcuno in una montagna, un edificio o addirittura un toast. La Bbc ha raccontato alcuni casi di pareidolia, quell’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili dalla forma casuale. Qualche volta il fenomeno si è trasformato in business: lo store JcPenney ha esaurito in poche ore una caffettiera con i «tratti» simili a quelli di Hitler. Non era la prima volta che il capo del Terzo Reich si materializzava: era accaduto nel 2006, quando il sito Tumblr aveva sottolineato la somiglianza con la facciata di una casa a Swansea. Il caso ha voluto che sempre nel Galles, la famiglia Allen abbia intravisto nel coperchio rovesciato della marmellata l’immagine di Cristo, e qualcosa di simile è accaduto nel 1994 all’americana Diane Duyser che nel toast al formaggio ha avuto una visione sacra: il panino è tuttora conservato come una reliquia con il nome «di Virgin Mary Grilled Cheese».
Quanto poco basti per innescare in noi il riflesso di vedere un volto umano e le espressioni in quel volto, è dimostrato da quei semplicissimi tondini, quelle figurette, chiamate emotici, spesso usate nei messaggi di posta elettronica e nei siti web. Vediamo, per un profondo involontario riflesso dettato dalla natura del nostro cervello, un volto nella luna piena, in certe nuvole, in certe foglie, in certi ghiribizzi scolpiti dalla natura sulle rocce. Un’utilitaria francese di qualche anno fa, avendo disegnato i fari a forma bislunga, ben si prestava a disegni pubblicitari che la trasformavano in una simpatica faccetta. Infatti, il volto umano ha per noi, fin dalla nascita, una rilevanza specialissima. Già poche ore dopo la nascita, un bebè ci imiterà se, ponendoci alla distanza giusta dal suo volto, spingiamo fuori la lingua, oppure formiamo una O con le labbra. Riconosciamo senza incertezza e istantaneamente migliaia di volti, quelli di parenti, amici, conoscenti, attori, campioni sportivi, politici, personaggi di cronaca. Li riconosciamo spesso malgrado i cambiamenti dell’età, l’aggiunta di baffi e barba, trucco e simili. I bimbi di circa cinque o sei anni identificano molto meglio di noi adulti il sesso in foto di volti di altri bimbi, nelle quali si è ritagliato solo l’ovale, senza mostrare i capelli.
Quanto sia efficiente e specifico il riconoscimento dei volti è dimostrato da alcuni casi patologici di grande interesse. Il primo, studiato da tempo anche da neurologi e cognitivisti italiani, si chiama prosopoagnosia (letteralmente, dal greco, mancanza di conoscenza del volto). Questi soggetti, nei quali sono colpite selettivamente particolari regioni cerebrali, tra le quali una chiamata, appunto, area fusiforme per il volto, ci vedono benissimo, ma non riescono a riconoscere le persone guardandole in viso. Il caso assolutamente perfetto di prosopoagnosia fu riportato qualche anno fa dall’insigne neurobiologo e cognitivista italiano Ennio De Renzi. Il suo soggetto era assolutamente incapace di riconoscere i volti, ma non aveva alcuna incertezza, né alcun indugio, nel riconoscere il proprio rasoio elettrico tra tanti, il suo mazzo di chiavi in un mucchio, i suoi occhiali tra tanti, la propria calligrafia e perfino ad identificare, dall’alto di una finestra, la sua auto che sapeva essere stata ad arte parcheggiata in un posto diverso da quello nel quale l’aveva lui stesso parcheggiata. Un caso opposto è stato studiato dal neurologo canadese Morris Moscovitch. Il suo paziente C. K. soffriva di gravissimi disturbi della vista in generale, non poteva nemmeno andare in giro da solo per le strade, ma era infallibile nel riconoscere i volti. Un caso ancora più curioso, riportato dalla neurobiologa olandese Beatrice De Gelder è quello di pazienti profondamente prosopoagnosici, i quali, però, si può dimostrare che ben intuiscono, senza esserne consci, le espressioni (sorriso, rabbia, disgusto, odio) in quei volti che pur sono per loro inscrutabili.
Il riconoscimento dei volti costituisce quello che in gergo tecnico si chiama un modulo, cioè un’unità mentale e cerebrale a sé stante, che può essere colpita lasciando tutto il resto intatto, oppure restare intatta quando il resto della cognizione visiva è gravemente compromesso. Questa modularità ben spiega il nostro riflesso di vedere volti anche laddove, in realtà, non ve ne sono. Siccome è stato dato il nome di pareidolia al processo che induce a vedere figure dotate di senso e forma in chiazze createsi a casaccio, e posto che esiste un disturbo della percezione chiamato paraprosopia, il brutto termine paraprosopolia potrebbe identificare una specializzazione, quella di vedere in alcune chiazze o forme naturali, un volto. Il modulo delle facce interagisce con altre aree cerebrali, assai meno modulari, quelle che cercano sempre un senso a tutto e spesso si illudono di trovarlo. Quindi, alcuni si sono illusi di vedere Madonne, Cristi o altri volti emblematici, benevolenti o malevolenti. Dato che siamo, in un certo senso, macchine per cercare significati, la paraprosopolia è la naturale, involontaria, proiezione di un angolo della nostra natura umana.
Massimo Piattelli Palmarini