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 2013  giugno 03 Lunedì calendario

QUIRICO, BATTAGLIE DEL ’700 E LOTTE DEGLI OPPRESSI

Il video di Eleonora e Metella Quirico è stato un tuffo al cuore, e non solo per la semplicità e l’intensità con cui hanno chiesto notizie del padre scomparso da quasi due mesi in Siria. L’ultima volta che le avevo viste, Metella — già bellissima, «uguale a sua mamma, da me ha preso solo le orecchie» sorrideva il padre — era nel passeggino, ed Eleonora era una bambina. Eravamo a cena a casa di Domenico e Giulietta, una villa sulle colline di Govone, tra Asti, la sua città, e Alba, e avevamo portato un cavallo a dondolo meccanico: i cavalli erano la grande passione di casa Quirico, sulla sua auto c’erano sempre una sella o le briglie, e i sedili erano impregnati dell’odore degli animali.
Ho passato seduto di fronte a Domenico Quirico otto anni e mezzo, tra l’estate del 1990 (l’invasione del Kuwait) e l’autunno del 1998 (la vittoria di Schröder in Germania). Era il mio capo al servizio esteri della Stampa: uno dei personaggi più singolari e interessanti che fosse dato incontrare.
Coltissimo, in qualsiasi momento della giornata aveva sempre davanti a sé un saggio di storia aperto. Mai ho visto un collega, tranne forse Pierluigi Battista, leggere tanti libri. La sua predilezione andava alle battaglie dell’Ancien Régime, su cui aveva letto tutto, anche in francese — che parlava benissimo — e in inglese, con cui faticava un poco e che per questo prediligeva, visto che Domenico amava la fatica e le difficoltà. Detestava la rivoluzione del 1789, diceva che dopo erano cominciate la guerre ideologiche, di annientamento, di sterminio. Era un cultore della tattica militare del Settecento, quando le battaglie si svolgevano per manovre, e talora vittorie e sconfitte si delineavano senza sparare un colpo; spiegava che lo stesso era accaduto con la guerra fredda, quando la partita a scacchi della strategia nucleare era stata vinta da Reagan con un bluff che Gorbaciov non ebbe la forza di vedere, e mentre lo spiegava gli venivano le lacrime agli occhi perché poche cose lo emozionavano come l’avventura dell’intelligenza umana.
Dormiva poco e mangiava pochissimo, quasi solo risotto. Dopo la riunione del mattino, quando noi andavamo a pranzo, lui andava a correre sulle colline torinesi: una ventina di chilometri al giorno. Era il suo modo di sfogare la tensione, «se no arrivo al giornale e ammazzo qualcuno» scherzava. Di intelligenza rapida, non era paziente con chi non gli teneva il passo. Molto magro, portava camicia, gilet, giacca e cravatta anche d’estate, perché non aveva mai caldo. Uomo di profonda moralità, aveva vezzi innocenti, tipo abbassarsi l’età, come una diva di Hollywood. Orgogliosamente reazionario, non amava la destra italiana. Quando dalle nostre parti emersero i primi leghisti, li guardava con distacco: «Gente con il nodo alla cravatta troppo grosso, che fa gare a chi mangia più trippa…». Più che Miglio gli interessava De Maistre, il controrivoluzionario sabaudo. Però tifava per Napoleone, che considerava il più grande uomo mai esistito.
Appena poteva, partiva. L’Algeria, dove raccontò la guerra civile. Il Sudafrica, per il referendum che chiuse l’epoca dell’apartheid. Ma la sua grande passione era l’Africa nera, in particolare l’Eritrea in lotta per l’indipendenza. Era abbonato a tutte le riviste francesi specializzate, che mi passava, insegnandomi che non bisognava solo leggere i quotidiani stranieri come fanno tutti ma pure Jeune Afrique e Jeune Afrique Plus. Progettammo anche di scrivere un libro insieme, una storia critica del terzomondismo. Era capace di grandi slanci di generosità e di qualche dispettuccio (appena torna ve li racconto).
In questi anni Domenico ha coltivato i suoi studi storici, traendone libri di successo. E ha continuato i suoi viaggi, nello spirito espresso con asciuttezza piemontese dalle figlie: «Per raccontare all’Italia le sofferenze» degli altri popoli. Severo con gli autocrati e i corrotti, fin dagli esordi era sempre dalla parte della popolazione oppressa e derubata; per questo, come ha raccontato Giuseppe Sarcina, non volle lasciare la Libia senza andare di persona a fare le condoglianze alla vedova del suo autista ucciso. Nessuno sa dove sia ora Domenico Quirico. La speranza non è finita. Ne parlo al passato solo perché è finito quel periodo, per lui e per me. In questo tempo non ci siamo mai sentiti. Io l’ho sempre stimato molto, e in qualche modo gli ho voluto bene. Vorrei che, in qualche modo, lo sapesse.
Aldo Cazzullo