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 2013  giugno 01 Sabato calendario

CHICAGO, LO SMACCO DEL SINDACATO SI ARRENDE DOPO 10 ANNI DI SCIOPERO L’HOTEL DELLA SFIDA AI PADRONI

Fa caldo la mattina del 3 giugno del 2003 a Chicago. Alla Casa Bianca c’è George Bush, l’America si sta riprendendo dalle paure dell’11 settembre e la recessione è ancora lontana da arrivare. Qualcuno dei lavoratori del Congress Plaza Hotel ricorda anche che tira un vento umido quando in centotrenta, tra camerieri, inservienti delle cucine e addetti alle pulizie escono in fila indiana dalle porte girevoli e proclamano lo sciopero per avere salari più alti e la fine dei sub-appalti. «Pensavo sarebbe durato due mesi», dice uno di loro al Chicago Tribune.
Invece incrociano le braccia per dieci anni, sino alla mezzanotte di mercoledì, in quella che è la seconda protesta più lunga della storia (una fabbrica in California si è fermata per 14 anni).
Un record. Senza alcun risultato, come annuncia il capo del sindacato locale, Henry Tamarin: «La decisione di mettere fine alla nostra azione è stata sofferta e molto difficile, ma non c’è più niente da fare. Il giro d’affari dell’albergo si è ridotto e i proprietari non hanno mai dato segni di cedimento. Vivono tra Ginevra e Tel Aviv, da quando abbiamo iniziato non li abbiamo mai incontrati ».
È una resa simbolica, come scrive sul suo sito Time.
Una sconfitta che fotografa al meglio le difficoltà che vivono in questo momento i sindacati americani, imprigionati dalla crisi economica e traditi dai democratici, in minoranza al Congresso, incapaci di portare avanti politiche in loro difesa, come lo sfarinamento del Employee Free Choice Act dimostra.
Una resa simbolica, perché lo sciopero del Congress Plaza diventa presto un manifesto di lotta e speranza. Sul largo marciapiede di Michigan Avenue, davanti a questo palazzone costruito nel 1893, vanno in scena cortei, picchetti. Happening con artisti e cantanti come Bruce Springsteen, che si schierano «in difesa dei diritti dei più deboli». Le tv accendono i riflettori. Viene anche Obama, quando è senatore. E torna quando decide di candidarsi alla Casa Bianca.
Tutto inutile: «I nostri iscritti sono pronti a rientrare alle stesse condizioni di 10 anni fa». Ovvero 8.83 dollari all’ora contro una media che in città adesso è di oltre 16. Ma non è ancora chiaro quanti decideranno di ritornare al vecchio impiego e nemmeno le intenzione della società sono definite. Peter Andjelkovich, l’avvocato che la rappresenta, spiega: «Sono stupito della loro decisione, è da un anno che non ci incontriamo. Adesso dovremo sederci attorno ad un tavolo per stabilire tutte le nuove condizioni».
La battaglia è stata dura e dalla strada presto sconfina nei tribunali. La proprietà accusa il sindacato di aver giocato sporco cercando di togliere clienti e occasioni di guadagno all’hotel. Un sacco di letame viene spedito ad un’associazione agricola che vuole affittare i saloni per un convegno. La produzione dello show televisivo America’s Next Top Model viene convinta a cambiare location tra minacce e intimidazione. «Ma la nostra decisione non è legata a queste pendenze legali», assicurano i sindacalisti.
Rimane la rabbia dei lavoratori. Josè Sanchez racconta: «Dopo otto anni mi sono arreso, me ne sono andato dal picchetto. Perché? I soldi. Ho una famiglia, dei figli da mantenere e i duecento dollari a settimana che mi passavano non bastavano più». Il Chicago Sun Time raccoglie lo sfogo di un altro che invece la battaglia l’ha portata avanti sino alla fine. Non dà il nome al giornale: «Ho paura per il mio futuro». Le sue parole valgono un saggio sui rapporti di forza al tempo della grande crisi: «Non ho l’età per la pensione, ma non sono più giovane per trovare altre sistemazioni. Devo assolutamente riprendere il mio posto in quell’albergo altrimenti non so come andare avanti. I padroni sono stati così testardi, noi siamo così deboli: ci hanno battuto».