Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 03 Lunedì calendario

ARTICOLI USCITI SULLA TURCHIA


CORRIERE DELLA SERA 1/6/2013
MONICA RICCI SARGENTINI
«Occupy Gezi Park». Il sit-in contro la distruzione del parco di Piazza Taksim, luogo simbolo della Turchia laica, si sta trasformando in una battaglia per la libertà contro il crescente autoritarismo del governo Erdogan. Da lunedì scorso migliaia di cittadini occupano l’area verde, una delle poche nel centro di Istanbul, per impedire alle ruspe di tirar giù i 600 alberi e far posto, tra l’altro, a un grande centro commerciale. E sono due giorni che la polizia interviene all’alba, molto duramente, usando gas lacrimogeni, cannoni d’acqua e spray urticanti. Ieri sono stati più di cento i feriti, alcuni in modo grave, ma la protesta non accenna a spegnersi. «Il popolo non sarà sottomesso» è il titolo del grande poster che raffigura Erdogan nelle vesti di un sultano ottomano.
La buona notizia è che, per ora, le ruspe si fermeranno: ieri una Corte di Istanbul, esaminando un ricorso, ha ordinato la sospensione temporanea del contestato progetto che prevede, tra l’altro, il rifacimento di antiche caserme ottomane. Il premier, però, non sembra intenzionato a cedere: «Fate quello che volete — ha detto — ma noi abbiamo preso la nostra decisione».
La prima vittoria dei contestatori, tuttavia, accende ancor di più il tam tam sui social network attraverso gli hashtag #occupygezipark o #DirenGeziParki (Resisti Parco Gezi), che chiamano i cittadini alla protesta. Succede ad Ankara dove i manifestanti hanno urlato «Dovunque resistenza» in solidarietà con Piazza Taksim e sono stati dispersi dalla polizia. Cortei di dimensioni più piccole si sono tenuti anche in una decina di altre città.
Da Amnesty International a Reporters sans Frontières diventano sempre più diffuse le critiche delle Ong alle forze dell’ordine per un uso eccessivo della forza. Ieri il bilancio degli scontri è stato particolarmente pesante. I gas lacrimogeni hanno invaso la metropolitana e sono entrati nei finestrini delle auto in transito sulla piazza. Diversi attivisti sono rimasti a terra incoscienti per le inalazioni. «Ci state uccidendo», hanno urlato i contestatori tirando pietre agli agenti. «Questo non è stato un intervento ma un attacco» ha detto il deputato del principale partito di opposizione (Chp) Ilhan Cihaner. Tra i feriti più gravi un giornalista, una turista egiziana e Sirri Sureyya Onder, un deputato del partito curdo Bdp che in questi giorni si era piazzato da solo davanti alle ruspe in movimento. Sessanta le persone arrestate. Il ministro dell’Interno turco, Muammer Guler, ha assicurato che le autorità indagheranno sulle denunce nei confronti della polizia.
La rivolta, dunque, si fa sempre più simile a quelle della stagione degli indignados di Madrid, Londra o New York. Ieri Kemal Kiliçdaroglu, il leader del Chp, ha chiesto ai suoi deputati di presidiare il parco. A sostegno della piazza si sono schierati artisti, intellettuali, professori universitari e anche i tifosi delle squadre di calcio più importanti della città. E molti proprietari di note catene di abbigliamento, come Herry o Silk&Cachemere, hanno fatto sapere che non affitteranno uno spazio nel nuovo centro commerciale.
La cementificazione di Istanbul diventa così il simbolo dell’arroganza del potere. La recente crociata contro l’alcol, i numerosi giornalisti in carcere per reati d’opinione e la condanna al carcere di chi denigra i valori della religione musulmana fa crescere i timori di una svolta autoritaria. Per tutti vale il richiamo del presidente della Corte Costituzionale Hasim Kiliç: «Proteggere i diritti degli altri è una virtù. Anche quando non siamo d’accordo con loro. Altrimenti si ha una distorsione della democrazia».
Monica Ricci Sargentini
@msargentini

LA REPUBBLICA - 1/6/2013
MARCO ANSALDO
A PIAZZA Taksim, cuore pulsante di Istanbul, un blindato bianco troneggia di solito a lato, senza interferire nel frenetico via vai del centro. Ma ieri lo slargo dominato dal monumento ad Ataturk, il padre della patria, è diventato un teatro di battaglia. Scontri, resistenze, cariche
della polizia, lacrimogeni, sangue, feriti. E i blindati dell’esercito hanno finito per occupare la piazza, lasciando i segni sui binari del tramvai rosso che porta i turisti fino alla torre di Galata.
Che cosa accade nella Turchia di questi giorni, ieri in rivolta contro le restrizioni sugli alcolici, i baci dati in pubblico, le donne a gambe
scoperte nelle pubblicità, le soap opera, e che oggi scende in piazza contro la distruzione del parco vicino a piazza Taksim destinato a far posto a un colossale centro commerciale e a una nuova moschea? Il giro di vite nei costumi tentato dal premier conservatore Recep Tayyip Erdogan sta raggiungendo il livello di guardia. E
l’opposizione laica, che teme una progressiva islamizzazione, resiste manifestando con rabbia la propria insofferenza.
Da lunedì migliaia di persone si sono accampate nel Gezi Park con l’intenzione di impedire ai bulldozer di sradicare i 600 alberi che costituiscono il polmone verde della metropoli. All’alba di ieri però i reparti
anti-sommossa hanno attaccato, con lacrimogeni, spray urticanti e cannoni ad acqua. Un centinaio i feriti e una sessantina i fermati. Ma la protesta non si ferma, allargandosi anzi alla capitale Ankara e in una decina di altre città.
Sotto tiro è Erdogan, e il suo approccio considerato sempre più autoritario. Ora che il suo partito,
ritenuto finora islamico moderato, è al potere da 10 anni, che la Turchia esprime una politica estera sempre più protagonista, che l’economia e la finanza volano a livelli cinesi, il premier sembra essersi lanciato in una campagna di moralità. L’opposizione, soprattutto il partito socialdemocratico, si è erta a difesa degli “indignados”, ottenendo
da un tribunale di far temporaneamente bloccare il taglio delle piante. Ma il leader è determinato ad andare avanti, e il progetto proseguirà, ha detto, «qualunque cosa facciate».
In gioco non ci sono solo formidabili interessi finanziari. Il centro commerciale di Taksim è solo l’ultimo tassello di un piano destinato a ridisegnare il volto di Istanbul, dove è partita la costruzione del terzo ponte fra Europa e Asia, si avvia un altro canale sul Bosforo, si prepara un nuovo aeroporto. Con un giro di miliardi che contempla l’edificazione di moschee dai minareti sempre più alti, di strade pronte a collegare centri lontani, di una rete ferroviaria tutta da rifare. Ma c’è soprattutto il piatto della competizione politica, che il prossimo anno presenterà due appuntamenti decisivi: le elezioni amministrative e quelle presidenziali, con un confronto fra l’attuale capo di Stato, Abdullah Gul, e il rivale Erdogan. La battaglia del Gezi Park è
solo l’inizio.

LA STAMPA 1/6/2013 (FOTONOTIZIA)
Era iniziata come una protesta di cittadini contro la distruzione di un parco, il Gezi Park di Taksim, e dei suoi 600 alberi, nel cuore di Istanbul. Poi è diventata una sorta di rivolta simile a quella degli indignados di Madrid, Londra o New York. A guidarla migliaia di giovani, artefici ieri degli scontri con i reparti anti-sommossa della polizia: centinaia di ragazzi feriti, di cui una grave, e oltre sessanta arresti.

CORRIERE DELLA SERA 2/6/2013
MONICA RICCI SARGENTINI
Quando la polizia si ritira da piazza Taksim la folla esulta. «Taksim è dappertutto, il popolo è dappertutto» grida un gruppo di manifestanti. «Fermiamo il fascismo, governo dimissioni» è un altro slogan. Dopo cinque giorni di proteste a difesa del parco Gezi, uno dei pochi polmoni verdi di Istanbul, l’atmosfera che si respira è quella di una festa. C’è chi balla, chi canta l’Internazionale, chi prende in giro il premier («Tayyip noi siamo qui, tu dove sei?»), chi si beve una birra a dispetto dei divieti imposti dal governo. La folla è politicamente variegata: ci sono i kemalisti ma anche i musulmani praticanti, le donne velate e quelle non. Migliaia di persone sono arrivate dalla parte asiatica facendo risuonare pentole e padelle mentre attraversavano a piedi il ponte sul Bosforo. «È come se improvvisamente Istanbul si fosse svegliata — dice al Corriere Isadora Bilancino, una blogger italiana residente in Turchia — le persone che prima si lamentavano ora scendono in piazza, c’è aria di rivoluzione».
Ma se in serata si canta vittoria, la giornata è stata di guerriglia urbana con il consolato italiano che sconsigliava ai turisti di uscire dall’albergo. La polizia ha usato la mano pesante tanto da costringere il premier Reçep Tayyip Erdogan a parlare di «una risposta un po’ estrema da parte degli agenti». E a far intervenire il presidente Abdullah Gül che, con una telefonata al ministro dell’Interno Muammer Güler e al premier, ha ottenuto il ritiro delle forze dell’ordine da Taksim. Al lancio di candelotti lacrimogeni, ai cannoni d’acqua, agli spray urticanti e ai manganelli elettrici la gente ha risposto tirando pietre con le mani o con le fionde. Secondo l’Associazione dei medici turchi ci sono stati più di 1.000 feriti ad Istanbul tra manifestanti e polizia, almeno quattro le persone che hanno perso la vista dopo essere state centrate dai candelotti lacrimogeni lanciati dagli agenti ad altezza d’uomo (alcuni sostengono che il gas usato sia di tipo illegale).
Ieri sera si combatteva ancora ad Ankara e nel quartiere Besiktas di Istanbul, sulle rive del Bosforo, dove c’è l’ufficio del premier. Nella capitale migliaia di manifestanti sono stati colpiti dai gas lacrimogeni lanciati dagli elicotteri. Ma si manifesta anche altrove: sono state 939 le persone arrestate in oltre 90 manifestazioni in tutto il Paese. Perché, dicono i manifestanti, «questa non è una protesta per il parco, questa è una protesta per la democrazia». E così ieri su Twitter l’hashtag #OccupyGezi è diventato #OccupyTurkey. Il sit-in per difendere gli alberi si è trasformato in una rivolta contro la deriva autoritaria di Erdogan e le minacce al secolarismo del Paese. Anche il regista turco Ferzan Ozpetek e molti altri intellettuali si sono schierati con i manifestanti. «Il governo fa pressione su tutto — dice alla France Presse una pensionata che chiede l’anonimato —, ci dice: fate tre figli, non bevete, non fumate, non camminate mano nella mano con il vostro fidanzato. Ma io mi ricordo di Atatürk e mi oppongo». «Questa è diventata una protesta contro Erdogan che prende decisioni come se fosse un re» è il commento all’Ap di Oral Goktas, un architetto di 31 anni.
La Turchia è una pentola che bolle e le autorità cercano di contenere la piazza. Sulla tv solo un canale, la Halk-TV, ha trasmesso la diretta degli eventi. E, tra i manifestanti, c’è chi accusa il governo di aver bloccato la connessione internet su computer e smartphone per non far girare le notizie dalle piazze. Ieri il premier ha chiesto l’immediata fine delle manifestazioni: «Ogni quattro anni — ha detto in un discorso trasmesso in televisione — questo Paese vota per scegliere il suo leader, la minoranza non può imporre il suo volere sulla maggioranza, quelli che hanno un problema con le politiche del governo possono esprimere il loro dissenso seguendo le regole della legge e della democrazia». Il 2014 è un anno di elezioni: locali, presidenziali e politiche. Allora la Turchia potrebbe voltare pagina.
Monica Ricci Sargentini

REPUBBLICA 2/6/2013
MARCO ANSALDO
MILLE feriti. Cento arrestati solo a Istanbul (ma sono ben 939 in più di 90 città della Turchia). Gente con la testa spaccata dalle manganellate. Quattro persone che hanno perso la vista perché centrate dai candelotti lacrimogeni sparati ad altezza uomo. Il sesto giorno della protesta a piazza Taksim, cuore della metropoli sul Bosforo, contro la costruzione di un grande centro commerciale al posto del parco centenario, è un bilancio da zona del fronte più che da centro città.
La polizia si è infine ritirata, ieri pomeriggio, dallo slargo dominato dal monumento ad Ataturk, padre laico della Turchia moderna. E la piazza è tornata a respirare, letteralmente. Ma a volerlo è stato il volto umano del potere turco, il capo dello Stato, Abdullah Gul, politico duttile e dall’approccio liberale, impostosi sul premier Recep Tayyip Erdogan, deciso invece a continuare il braccio di ferro con gli indignados che ha rivelato tutto il suo piglio autoritario.
Il primo ministro conservatore, leader del partito fino a ieri considerato islamico moderato,
ha dovuto alla fine ammettere gli abusi commessi dalle forze dell’ordine: «E’ vero — ha detto ordinando un’inchiesta in proposito — ci sono stati eccessi nella risposta della polizia». Ma fino al saggio stop voluto dal suo compagno di partito Gul, e prossimo rivale alle presidenziali del 2014, Erdogan ha lasciato correre il confronto fra gli agenti armati e i giovani resistenti che replicavano con i sassi. «La polizia continuerà a intervenire — aveva dichiarato di mattina davanti agli scarsi media locali che hanno coperto l’evento (un altro segno di regime, lamenta l’opposizione) — perchè piazza Taksim non può essere un’area in cui gli estremisti fanno come pare a loro». Il risultato è stata un’altra notte e una nuova mattinata di scontri feroci sulla strada vicino al Gezi Park destinato allo sradicamento di 600 alberi, quell’Istiklal Caddesi nota a tutti i turisti perché porta al quartiere di Galata costruito dai genovesi. Alle prime luci
dell’alba, centinaia di manifestanti sventolanti la bandiera turca, simbolo per molti di laicismo, hanno attraversato il ponte sul Bosforo fra Asia e Europa sfidando gli idranti della polizia. Alcuni di loro esibivano lattine di birra, in segno di sfida alle restrizioni notturne sugli alcolici imposte dal filo- islamico Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Erdogan.
La protesta si allargava così a
tutta la Turchia. Non solo alla capitale Ankara, dove a centinaia sono scesi davanti al Parlamento rispondendo con il lancio di bombe molotov ai gas lacrimogeni. Ma anche in Anatolia, a Konya, Eskishehir, Mugla, Bolu. Per non parlare di manifestazioni e marce in Germania, Olanda, Belgio e Danimarca. A Milano, un gruppo di cittadini turchi residenti in Italia ha manifestato al Parco Sempione.
Decisivo è risultato così l’intervento di Gul sul governo e sul ministro degli Interni, mentre la polizia si ritirava non senza lanciare lacrimogeni anche dagli elicotteri. Lanciando un appello al «buon senso», invitando alla «calma», chiedendo alla polizia di «agire con misura» e a tutti di «dare prova di responsabilità», il Presidente faceva sciogliere il nodo fra
agenti e dimostranti.
Se poi alcuni media locali hanno latitato nell’offrire un’informazione adeguata, è stato soprattutto grazie ai social network che le notizie si sono diffuse in modo capillare sia in Turchia sia all’estero. Facebook e Twitter hanno avuto un ruolo determinante pure nell’organizzazione dei sit-in contro il disboscamento degli alberi storici nel parco di Gezi. Fo-
tografie e video sono stati caricati con gli hashtag #geziparki e #OccupyGezi. I messaggi hanno mostrato la brutalità con cui le unità di polizia hanno cercato di sedare le proteste, rivelando scene brutali di persone, tra cui bambini, con difficoltà a respirare. Sono proprio queste immagini, che hanno fatto il giro del mondo, a far temere agli utenti turchi che le autorità potessero bloccare l’accesso
ai social media. E a creare infine pressioni sul premier. Diversi utenti hanno poi lamentato su Twitter un accesso molto rallentato, accusando il principale provider turco TTNET di impedire l’ingresso anche su Facebook. In tv pochi canali televisivi, come
Halk-TVche
ha invece trasmesso la copertura in diretta, hanno dato spazio ai durissimi scontri.
Anche il regista turco Ferzan
Ozpetek, come molti altri intellettuali e artisti, ha aderito a un appello ai media internazionali «perchè il resto del mondo sia messo a conoscenza di quello che sta accadendo». Il consolato italiano, che a Istanbul sorge proprio davanti al Museo dell’innocenza costruito dal premio Nobel, lo scrittore Orhan Pamuk, invita tutti gli italiani a «restare in albergo».

LA STAMPA 2/6/2013
MARTA OTTAVIANI
Nirgul ha le lacrime agli occhi, la polizia ha lanciato l’ennesima carica, lacrimogeni, cannoni ad acqua e manganelli. È appena scappato e prende fiato. «Siamo qui, siamo tanti, siamo diversi – dice – . Per la prima volta la Turchia è scesa in piazza spontaneamente. Siamo in tanti a essere stanchi, questo governo se ne deve andare, siamo all’autoritarismo». Il governo significa Erdogan, il premier islamico moderato che a colpi di leggi e norme sembra voler reinventare - in senso islamico - i costumi del Paese. A far scatenare la rabbia dei giovani è stata l’ultima decisione, la stretta sugli alcolici, divieto di vendita dalle 22 alle 6. Motivi di salute, spiega il governo, ma nessuno si «beve» la scusa. E fra venerdì e ieri hanno brindato i giovani, in barba al governo, sfidandolo apertamente: prima assediando Gezy Park, il giardino nel cuore di Istanbul, dove un centro commerciale vorrebbe far piazza pulita di seicento alberi, poi allargando il tiro della protesta. Contro il governo di Erdogan e contro l’idea di democrazia, sempre più in stile islamico, che il premier incarna. E dai tafferugli a piazza Taksim di venerdì sera, si è passati ieri alla guerriglia.
Hanno iniziato venerdì notte, sbattendo pentole contro i muri e i portoni delle case di Istanbul per invitare la gente a protestare. Il tam tam è proseguito su Facebook e Twitter e si sono ritrovati per le strade di tutta la Turchia, uniti dal grido «Erdogan, Istifa», Erdogan dimettiti. Tutti in piazza come una grande famiglia, nella quale convivono anime diverse. Gli ultra laici, che urlano «siamo i soldati di Mustafa Kemal Ataturk», il fondatore della Turchia laica e moderna del 1923. I nazionalisti, in corteo con i simboli dei Lupi Grigi. Le persone seguaci di movimenti comunisti e socialisti, che non votano da anni. Persino donne velate, deluse da quello che era il loro riferimento politico e che adesso si trovano a condividere la protesta con gente con la quale fino a pochi mesi fa avrebbero discusso animatamente davanti a un tè turco, il cay.
Leyla ha 18 anni e porta il velo da quando ne aveva 14. «L’ho scelto apposta rosso, come il colore della nostra bandiera – spiega sorridendo –. Sono qui per protestare perché credo che nel Paese in questo momento si avverta una forte stretta sui costumi della popolazione. Io sono musulmana e porto il velo e sono grata al premier per la sensibilità che dimostra nei confronti dei nostri diritti. Non è un buon motivo però per limitare quelli degli altri». Anche lei richiama alla storia dell’alcol sgradito ai piani alti della Turchia di Erdogan.
Quando la protesta ha iniziato ad allargarsi, molti giovani hanno percorso parte del corteo verso Taksim e negli altri quartieri della città tenendo in mano una birra, con una profusione di brindisi dedicati al primo ministro, accusato da una parte di voler introdurre nel Paese uno stile di vita sempre più conservatore e ispirato ai principi dell’Islam. «Io mi chiamo Ozgur – spiega uno studente universitario -. Il mio nome in turco vuole dire libero. Non ce ne andremo da qui finché il premier Erdogan non si sarà dimesso».
Gezi Parki è la causa ufficiale della protesta, ma è diventato anche idealmente il luogo in cui si radunano anime diverse di una Turchia ferita che, per un motivo o per l’altro, non sono contente dell’esecutivo islamico-moderato al governo, che pure ha vinto le elezioni nel 2011 con il 50% dei consensi e di cui adesso temono la deriva autoritaria. Con gli alberi, insomma, rischia di venire abbattutaanche una parte della nazione. La giornata di guerriglia urbana è iniziata ieri all’alba: i reparti anti-sommossa hanno preso d’assalto con manganelli, cannoni ad acqua, spray urticanti i giovani che dalla sera prima presidiavano il parco. Il bilancio degli scontri è salito rapidamente nel corso della giornata, si parla di mille feriti, di cinque persone che hanno perso la vista a causa dei fumogeni e di 100 arresti ma in tutto il Paese – perché anche nelle altre città la protesta si è diffusa – i fermi sono 1000. Per disperdere la folla sono stati anche impiegati - riferisce un testimone - elicotteri che hanno sparato fumogeni dall’alto. Minacciosi dapprima i toni di Erdogan, «riporteremo l’ordine», poi più mite quando è stato costretto ad ammettere che la polizia ha commesso «eccessi ed errori». Ammissione pubblica avvenuta dopo la telefonata di Gul, il capo dello Stato che ha chiesto a più riprese moderazione. La polizia poi si è ritirata. Ma la piazza è sempre viva. Ancora in serata c’era fermento, qualche tafferuglio e il grido della protesta si era esteso ben oltre Gezi Park, fino a Besiktas sulle rive del Bosforo. E contro Erdogan sono scese in piazza molte persone anche in diverse città del mondo, in un’ideale saldatura del movimento degli indignati (che ieri ha festeggiato i due anni a New York) e dei giovani turchi arrabbiati.
Difficile che il premier rinunci a un governo conquistato democraticamente e con un consenso plebiscitario. Una cosa però, probabilmente, l’ha capita. C’è una parte di Turchia che gli è sempre stata avversa e che ora è esasperata e un’altra parte che lo ha votato, ma non lo segue più fedelmente come una volta. È il caso anche di alcuni intellettuali, che gli avevano espresso appoggio, e che nelle ultime 36 ore erano a prendersi getti di idrante, lacrimogeni e manganellate come gli altri manifestanti. Il tutto per 600 alberi.

LA STAMPA 2/6/2013
FRANCESCA PACI
Il mondo arabo guarda ad Ankara, si diceva nel 2011 leggendo nelle rivolte popolari contro i regimi egiziano, tunisino, libico, yemenita, siriano, l’aspirazione a un modello autoctono di democrazia capace di conciliare Maometto e Montesquieu. Ma dove guarda davvero Ankara? A distanza di due anni la domanda rimbalza da una sponda all’altra del Mediterraneo in un gioco di specchi, con piazza Taksim che accusa il premier Erdogan di usare la crescita economica per imporre le sue ambizioni autoritarie (e religiosamente conservatrici) e la pioniera Tahrir che spera di neutralizzare l’islamizzazione dei costumi avviata dai Fratelli Musulmani con la necessaria apertura dell’Egitto al mercato globale.

Il fine è politico. Ma in Turchia come nel mondo arabo i simboli contano, e allungare la gonna delle hostess in volo con i colori nazionali riconduce da un lato i sogni volteriani dei liberal alla realtà della società musulmana ammansendo dall’altro le moschee più estremiste con l’estetica della devozione.

Così, in attesa che sbocci la democrazia, i primi frutti della primavera araba sono donne velate in tv e negli atenei, poliziotti barbuti, negozi di alcolici costretti a togliere le bottiglie dalle vetrine, locali notturni assaltati da moralizzatori armati (dieci giorni fa un gruppo islamista ha attaccato un bordello di Baghdad uccidendo 12 persone). Perfino l’«occidentale» Rania di Giordania ha fiutato l’aria e oltre a essere passata dall’inglese all’arabo nei suoi tweet indossa sempre più spesso lunghe tuniche tradizionali corredate di foulard sul capo.

Eppure chi resta ottimista sull’esito finale delle primavere arabe vi trova qualcosa in comune con il binomio rivoluzione e trasgressione dei nostri anni ’60. Il mondo arabo si sta abbuffando di quella fede esteriore vietata per decenni dai regimi. Anche nella Turchia laicizzata da Ataturk, Erdogan spaccia per emancipazione la riscoperta della religione. Certo, le minoranze cristiane hanno parecchio e legittimamente da obiettare circa la concezione islamica di libertà come negazione di quella altrui. Un concetto espresso perfettamente dallo scrittore saudita Mohamed alDawood che rivendicando il diritto di protestare contro la «piaga» delle donne lavoratrici ha invitato via Twitter i connazionali a «molestare sessualmente le cassiere dei supermercati» per dissuaderle. Loro però, signore e signorine di Riad, sanno usare i simboli e di una debolezza fanno una forza: fazzoletto in testa, gonna sotto il ginocchio e via, all’università, in ufficio, al volante.

TROPPE RESTRIZIONI, LA STAMPA 2/6/2013
Una protesta che dilaga e sfugge di mano; Erdogan che ha sbagliato a calcolarne le conseguenze, peccando di eccessiva sicurezza. Ekrem Guzeldere, a n a l i s t a p o l i t i co esperto di Turchia dell’European Stability Iniziative, un think-tank che si occupa di Europa sudorientale, spiega i motivi della rivolta e quali conseguenze la rabbia dei giovani in piazza Taksim potrebbe avere sul futuro del Paese».

Ekrem Guzeldere, migliaia di persona in piazza contro il governo in pochi giorni. Come se lo spiega?

«Ci sono più fattori che hanno portato a questa rivolta. Sicuramente una è la legge sulla restrizione di vendita di alcol, che è stata approvata la settimana scorsa e che è stata percepita come una limitazione allo stile di vita.

Ve ne sono altre?

Ce ne è una seconda: ovvero alcune grand i o p e re promosse dal premier, come il terzo aeroporto o il terzo ponte sul Bosforo. Entrambe mettono a rischio l’ambiente ed entrambe sono state viste più come progetti faraonici, deleteri per l’ambiente e la speculazione edilizia che altro».

Perché la gente è in piazza?

«La gente è chiaramente in piazza contro un modo di governare il Paese, non solo per l’ambiente. Abbiamo un premier che ha preso il 50% dei consensi e che per questo ormai si sente onnipotente, può contare sui media e su un sistema economico pronto a sostenerlo».

Come mai il premier Erdogan non ha fatto nulla per evitare che la situazione degenerasse?

«Perché ormai ha acquisito una sicurezza eccessiva, che rischia seriamente di diventare un problema per lui. Si vede da come sta governando. Ormai va avanti da solo, non fa nemmeno più il gesto di ascoltare le opposizioni. Una volta non era così».

Come vede la Turchia, adesso?

«Mi pare che questo terzo governo Erdogan, che avrebbe dovuto rappresentare il nuovo corso per la politica nazionale, sia nelle sue manifestazioni molto vicino come impostazione a quelli della vecchia Turchia che lo hanno preceduto. La differenza è che una volta c’erano alcuni tabù, come la questione curda, ora ne sono subentrati altri, che riguardano soprattutto gli stili di vita».

CORRIERE DELLA SERA 3/6/2013
MONICA RICCI SARGENTINI
Mentre nelle piazze di molte città turche continuano gli scontri tra manifestanti e polizia, le tv del Paese trasmettono senza sosta le dichiarazioni del primo ministro: ieri eravamo al quarto discorso in diretta tv in sole 36 ore. Recep Tayyip Erdogan, al potere da un decennio, non sembra affatto accomodante verso la protesta: chiama i manifestanti «saccheggiatori»; difende la legge contro gli alcolici «sto solo cercando di proteggere i giovani — dice — chiunque beve è un alcolizzato»; accusa Twitter di essere «la peggior minaccia per la società perché veicola bugie» e l’opposizione di manipolare l’opinione pubblica «per meri fini politici»; assicura che al posto del parco Gezi a piazza Taksim sorgerà una moschea, «non chiederò certo il permesso all’opposizione o a una manciata di saccheggiatori».
Le parole del premier, però, non fermano la folla. Ieri piazza Taksim, un simbolo del Paese laico e cosmopolita, appariva tranquilla ma non certo spenta: migliaia di persone la riempivano intonando slogan contro il premier, sventolando bandiere turche, mostrando ritratti del fondatore della patria, Atatürk, ed esibendo bottiglie di birra. Ma gli scontri sono proseguiti nel vicino quartiere di Besiktas dove la polizia nella notte ha usato i cannoni ad acqua e i gas lacrimogeni per tenere lontano la folla dagli uffici del premier. In segno di appoggio ai manifestanti le macchine suonavano i clacson e dalle finestre la gente sbatteva pentole e padelle. Stesse scene ad Ankara in piazza Kizilay, a Smirne e ad Adana, la terza e la quarta città del Paese. Ieri Amnesty International è tornata a biasimare il comportamento delle forze dell’ordine a piazza Taksim: «Anche la nostra sede è stata raggiunta dai fumi dei lacrimogeni — ha detto il portavoce dell’organizzazione in Italia, Riccardo Noury — decine di feriti, tra cui alcuni bambini, sono stati curati dai nostri volontari». Le persone arrestate, circa 1.750 per il ministro degli Interni Muammer Güler, non sono state trattate con umanità: «I manifestanti fermati — ha aggiunto Noury — sono stati tenuti anche 12 ore nei blindati della polizia senza acqua, cibo e senza servizi igienici». Amnesty ieri aveva parlato di due morti e cinque persone in fin di vita ma la notizia non è stata confermata: «Pretendiamo dal ministero della Sanità turco informazioni precise sul numero di persone rimaste ferite».
Per Erdogan è il momento più critico da quando è salito al potere nel 2002. Lo riconosce anche il quotidiano Zaman, considerato vicino al governo. «Nulla sarà più come prima — scrive Bülent Kenes —. Ora l’esecutivo ha davanti a sé due strade: o rispetta le sensibilità dell’opinione pubblica e apre canali di comunicazione o diventa repressivo e tirannico». Un altro analista politico del giornale, Sule Kulu, sostiene che il premier «si è sparato una pallottola in un piede creando una nuova opposizione, formata da diversi settori della popolazione, anche da quelli che lo hanno appoggiato pienamente in passato». «Erdogan non è più onnipotente», è la constatazione di Murat Yetkin sull’Hurriyet, uno dei quotidiani più diffusi del Paese, che spesso si è scontrato con il governo. Ora bisognerà vedere come l’opposizione gestirà la protesta. Finora il leader del Partito repubblicano del popolo (Chp), Kemal Kiliçdaroglu, è stato abile nel non farsi identificare come il leader del movimento del parco. Anzi i suoi uomini hanno negato di aver orchestrato la rivolta: «Le persone che scendono in piazza in tutta la Turchia — ha detto Mehmet Akif Hamzacebi, un vecchio esponente del Chp — provengono da tutte le forze politiche. Invece di dare a noi la colpa, Erdogan farebbe meglio a trarre una lezione dall’accaduto».
Monica Ricci Sargentini

CORRIERE - INTERVISTA A GIAVAZZI
«Ci sono mille ragioni per cui finora non abbiamo voluto la Turchia nell’Europa, però chiediamoci veramente come sarebbe l’Unione Europea se avesse vicino un Paese che assomiglia all’Iran». Francesco Giavazzi, professore di Economia alla Bocconi ed editorialista del Corriere, è arrivato a Istanbul sabato scorso nel mezzo della protesta contro il governo Erdogan: si è recato in piazza Taksim, ha parlato con la gente che manifestava ed è rimasto impressionato dall’atmosfera che si respira nel Paese. «Di sicuro — dice al telefono — quello che sta succedendo non ha nulla a che fare con il parco Gezi e con gli alberi. Qui se uno si guarda in giro vede tante donne, anche anziane, che ce l’hanno con il primo ministro per il suo tentativo di far diventare la Turchia uno Stato islamico».
L’impressione è che Erdogan stia diventando proprio come Putin, un autocrate insofferente: «La gente di questo se ne accorge. Ho visto ragazzi che vanno in giro con le lattine di birra per sfidare il divieto sull’alcol e ragazze che mostrano il capo scoperto in segno di sfida. Ma come? La Costituzione voluta da Atatürk vietava il velo in ufficio e ora diventa quasi un obbligo? Molte donne mi hanno detto che a scuola costringono le bambine a indossarlo».
Anche negli ambienti universitari c’è molta preoccupazione per il futuro. Giavazzi in questi giorni terrà delle lezioni di politica fiscale alla Koç University: «Mi hanno detto — racconta — che Erdogan preme per diventare il nuovo sultano del Medio Oriente, che insiste con gli americani perché entrino in Siria. Il problema è che quando un Paese cresce economicamente la gente è pronta a chiudere gli occhi su molte cose ma le ultime decisioni hanno un po’ passato il limite».
Secondo i sondaggi Erdogan ha ancora fra il 40% e il 50% delle intenzioni di voto. Ma il suo elettorato non è monolitico. Ci sono i religiosi, le grandi masse dell’Anatolia cui il governo islamico ha ridato orgoglio e parola, ma c’è anche una fetta di elettori che lo vota perché dal 2002 ha dato stabilità al Paese, triplicato il reddito pro capite, fatto della Turchia la 17esima economia mondiale. «Queste persone — dice Giavazzi — non sono pronte a rinunciare alla laicità per una Repubblica islamica. È interessante vedere che cosa accade all’élite perché finora ha accettato di avere un Paese un po’ più musulmano in cambio di buoni affari ma oggi non ci sta più e manda le figlie a studiare all’estero per non far mettere loro il velo».
Anche la crescita potrebbe essere illusoria. «Stanno costruendo dappertutto forsennatamente ma la Storia ci dice — è l’analisi del professore — che questi grandi boom immobiliari poi finiscono male se dietro non ci sono istituzioni che funzionano. È un po’ quello che accade in Cina con la differenza che qui la democrazia c’è ma sempre di meno. Oggi il numero di giornalisti in prigione nel Paese è secondo solo alla Russia».
Le colpe di quanto sta accadendo sono anche dell’Europa. «Sicuramente la decisione di Bruxelles di non lasciar entrare Ankara nell’Unione o di rallentarne il processo di adesione ha messo la Turchia sulla strada dell’Islam radicale. Un ragazzo mi ha detto: se diventiamo come l’Iran sarete voi i responsabili, se ci aveste lasciato entrare nella Ue oggi saremmo un altro Paese».
Mo. Ri. Sar.

REPUBBLICA 3/6/2013
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
ISTANBUL
MUORE un albero. Si sveglia una nazione”. È la massima di Nazim Hikmet.
La polizia turca in assetto anti-sommossa affronta i dimostranti ad Ankara IL DETTO del massimo poeta turco, inviso al potere e morto lontano dalla patria, si legge chiaro sui cartelli innalzati a Piazza Taksim, simbolo della rivolta turca.
E si adatta bene qui, davanti al Gezi Park, dove i 600 alberi da sacrificare per far posto a un grande centro commerciale, appaiono per ora al sicuro nonostante abbiano costituito la miccia di una colossale protesta laica che infiamma Istanbul e tutto il Paese contro gli islamici al governo.
«Tayyip, noi siamo qui. Tu dove sei?», scandiscono a migliaia al ritmo di un tamburo che attraversa lo slargo dove si erge il monumento ad
Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, scolpito dall’italiano Pietro Canonica. Tayyip Erdogan, il primo ministro che ha alzato le tasse su tabacco e alcolici, che vuole vietare i baci in pubblico e le gambe delle modelle nelle pubblicità, accusato piuttosto di pensare troppo agli affari e a progetti faraonici, è da sette giorni e sette notti il bersaglio della
piazza.
«Dimettiti, fascista!». «Vattene in Arabia Saudita ». «Basta con la religione al potere». Parole come sassi, scritte di fuoco sui muri, mentre la polizia da un giorno ha infine lasciato il campo a una folla che impugna, come finora visto solo a Smirne, il centro più laico del Paese, la bandiera nazionale con impressa l’immagine simbolo di Ataturk.
E’ una massa adesso padrona della piazza. Con una protesta che si esprime in mille forme. Sono arrivati qui anche dalla parte anatolica, battendo i cucchiai contro le pentole, appendendo asciugamani bianchi alle finestre, accendendo e spegnendo la luce di notte nelle case
in segno di perenne vigilanza.
«Il governo — dice Deniz, un giovane che indossa una maglietta senza maniche — fa pressioni su tutto: non fate due figli, ma fatene tre. Non baciatevi nelle stazioni della metropolitana. Non fumate. Non bevete. Ma io sono un figlio di Ataturk, accidenti, e mi oppongo». Spiega Ayshe, una donna sulla trentina: «Questa è la Turchia, è il mio Paese, dobbiamo difenderlo da chi vuole distruggerlo con divieti assurdi e con costruzioni che alterano l’immagine di Istanbul. Ora basta. La nostra è la “Primavera turca”». «A Erdogan è partito il cervello — aggiunge un altro dimostrante che tiene in mano una birra — dopo il terzo mandato ricevuto alle elezioni pensa essere il padrone della Turchia. Per lui la critica non esiste. Adesso è evidente a tutti che
ha in mente una “agenda islamica”».
Non è facile arrivare fino a Taksim, fulcro di un Istanbul solitamente preda di un traffico ben superiore a quello di Roma. L’accesso è solo a piedi. Le vie in salita, dove spesso arrancano autobus colmi di turisti, sono ora sbarrati da barricate composte da mattoni divelti dai marciapiedi. Oppure da blindati della polizia, rivoltati, vuoti, come cadaveri gettati in mezzo alla strada. Vetri dappertutto, pezzi di cemento rimossi. E’ un’atmosfera da battaglia, mentre ristagna l’odore acre dei gas lacrimogeni, e le aiuole sono colme dei limoni a spicchi con cui i manifestanti hanno tentato di proteggersi il respiro.
A Piazza Taksim aleggia adesso
un profumo di vittoria. E’ la piazza simbolo della sinistra repubblicana. Qui si sono tenute le ri-
volte del 1 maggio. Qui gli istanbulioti hanno dimostrato tutta la solidarietà ai concittadini ospitandoli e riscaldandoli nelle notti passate all’addiaccio nel terremoto del 1999. In una mattina di domenica in cui gli scontri sembrano essersi presi un giorno di tregua, decine di ragazzi si sono armati di scope, palette e sacchi, ripulendo gli angoli dai pezzi di vetro, dai proiettili di gomma, dai candelotti lacrimogeni esplosi, insieme a montagne di rifiuti lasciati da una settimana di occupazione.
La rivolta si è invece trasferita di giorno ad Ankara, dove un assembramento è stato disperso da una carica della polizia che ha fatto uso di lacrimogeni e idranti: almeno 8 i feriti. E poi a Smirne, considerata dagli integralisti “gavur”,
l’infedele, dove cortei di auto hanno marciato per il centro suonando i clacson ed esponendo la bandiera nazionale. In 7 giorni, più di 1.700 le persone arrestate. «La maggior parte — ha riferito il ministro dell’Interno, Muammer Guler, che ha infine obbedito all’ordine del capo dello Stato, Abdullah Gul, di far ritirare la polizia — sono state rilasciate». Due persone sono state uccise, sostengono i dimostranti. Ma è una notizia che non trova conferma a livello ufficiale, e anche Amnesty International riferisce unicamente di «cinque persone in pericolo di vita per ferite alla testa».
Prima di sera è Erdogan a farsi vivo in tv con un discorso. «Dicono che Tayyip Erdogan è un dittatore — esordisce, riferendosi a sé stesso —
Se vogliono chiamare dittatore uno che serve il popolo, mi mancano le parole». Poi, in tono di sfida, contro i socialdemocratici, suoi avversari in Parlamento: «Il principale partito di opposizione è la causa di queste proteste, che hanno una motivazione ideologica e non riguarda invece lo sradicamento di una dozzina di alberi. Naturalmente, non chiederò a loro né ai saccheggiatori il permesso per andare avanti. In realtà, sono incapaci di sconfiggere il governo alle urne». In ultimo, dopo aver accusato Twitter e i social network di fomentare la rivolta, l’attacco ai dimostranti ma con una sostanziale marcia indietro sul progetto che ha scatenato la
rivolta: «Bruciano, danneggiano negozi, è questa la democrazia? Il problema sono gli alberi? Qui nessuno vuole tagliare gli alberi. Non c’è nessuna decisione finale sulla costruzione di un centro commerciale. Forse ci sarà un museo cittadino ».
Eppure, il “cahier de doleances” dei laici nei confronti del premier, nonostante le 3 indiscutibili vittorie alle elezioni nei 10 anni in cui è al potere, è lungo: il velo ammesso nei luoghi pubblici e negli uffici statali, le scuole coraniche pure per i bambini, le tv controllate e i media sotto scacco, i procedimenti a intellettuali e giornalisti critici. Il giro di vite sull’alcol è solo l’ultima goccia. Assieme agli imbarazzi e agli attentati subiti per la vicina crisi siriana. Gli alberi di Gezi Park, la miccia finale.
E’ ormai buio quando da Piazza Taksim la battaglia si trasferisce al porto di Besiktas, nei
pressi dei grandi alberghi per i turisti. Dove l’altro ieri, in un’inedita riunione, i tifosi delle 3 squadre di Istanbul, Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas, si sono ritrovati vestiti delle magliette dei propri club, mischiandosi fra loro e intonando cori contro il leader: «Tayyip, dimissioni! Viva la Turchia laica». Ma questa è un’altra notte di battaglia. Spari, urla, ancora lacrimogeni, ancora rulli di tamburi. Elicotteri della polizia si alzano in volo. Creata dai gas, una nuvola nera staziona sopra il Bosforo. I dimostranti si disperdono, mentre scatta la caccia all’abitazione di Erdogan, presidiata dalla polizia.

LA FOTO SIMBOLO DELLA RIVOLTA (REP 3/6)
ISTANBUL — «Quando ho visto la ragazza con la giacca rossa che si rivolgeva alla polizia, e gli agenti che aprivano gli idranti per colpirla, ho subito tirato fuori la macchina fotografica e ho scattato. Dopo sono andata dai miei colleghi e ho detto loro: guardate un po’ questa foto».
Sinem Babul ha 26 anni, ed è una fotoreporter freelance che collabora al quotidiano online T24, dove T sta per Tempo. L’altro giorno, nel pieno della protesta, Sinem ha capito che quell’immagine, scattata da queste finestre, era diversa dalle altre. Perfetta nella sua rappresentazione, l’icona della rivolta.
Che cosa ha fatto dopo il clic?
«Sono scesa a cercare questa ragazza. L’ho ammirata. Sui vent’anni, impavida, coraggiosa, ferma a prendersi il getto degli idranti. Niente: volatilizzata. Non sappiamo se l’abbia presa la polizia oppure sia semplicemente sparita».
Che cosa aveva visto prima di questa scena?
«In quegli attimi la protesta era allo stato iniziale, pacifica. Ho notato questa giovane staccarsi e camminare da sola verso la polizia. Si è messa a parlare con gli agenti, che avevano caschi e scudi. Diceva: “Non state lì. Smettete. Venite a sedervi con noi, parliamo, e capirete i motivi per cui ci battiamo”».
La risposta?
«Un violento getto d’acqua in faccia. La prima volta la ragazza è caduta. Era completamente bagnata. Alcuni dimostranti l’hanno portata in un bar vicino, le hanno fatto prendere qualcosa. Poi lei è tornata davanti agli agenti. Stessa scena. Ma questa volta è rimasta in piedi, senza cadere, come una statua. Dopo lo scatto, mi sono precipitata giù. Ma hanno iniziato a sparare i gas lacrimogeni. L’ho persa di vista. Non so nemmeno come si chiama».
(m. ans.)

GILLES KEPEL
LE MANIFESTAZIONI a Istanbul, Smirne e Ankara sono il primo esempio di una massiccia disobbedienza civile nei confronti del potere di
Erdogan.
E ANCHE nei confronti del partito islamico Akp che dirige il Paese da più di dieci anni. Queste manifestazioni che potrebbero rappresentare l’inizio di una “primavera turca” costringono il premier a ridisegnare l’immagine e il ruolo della Turchia, tenendo conto delle sue pretese di servire come esempio “islamo-capitalista” a quei Fratelli musulmani che hanno conquistato il potere in Egitto e Tunisia.
Paradossalmente, però, se per quei regimi arabi nati con le recenti rivoluzioni la Turchia è diventata il modello di sviluppo economico da imitare, le rivolte di Istanbul, Smirne e Ankara evocano le manifestazioni
del Cairo contro l’autoritarismo
del presidente Morsi o quelle di Tunisi dopo l’assassinio dell’avvocato laico Chokri Belaid da parte di un gruppo islamico radicale. La prosperità turca si è infatti scontrata a diversi ostacoli interni e regionali, che hanno rotto gli equilibri di quella “democrazia islamica” che predicava Erdogan, spingendo il Paese verso una deriva dittatoriale e un coinvolgimento sempre più rischioso nella guerra in Siria.
Sul piano interno, ad allontanare le classi medi democratiche che avevano votato l’Akp, e a farle scendere nelle piazze, sono state sia le leggi recentemente annunciate per limitare severamente la vendita di alcol, sia la volontà di Erdogan di presentarsi nel 2014 alle elezioni presidenziali (e, una volta eletto, trasformare la costituzione in modo da gestire da solo tutto il potere). Ora, il successo dell’Akp fu provocato dal rifiuto del popolo turco dell’onnipotenza dei militari, i quali dagli inizi della repubblica, e con un guanto di ferro, avevano controllato ciò che i turchi stessi chiamano “lo Stato profondo”.
A queste ragioni interne di scontento e di timore si sono aggiunti gli interrogativi sui rischi che fa correre
alla Turchia un suo coinvolgimento sempre più importante nel conflitto civile che sta dilaniando la Siria e che ormai sconfina un po’ ovunque dal suo territorio.
Basterebbe citare il fatto che le forze del presidente Bashar al Assad hanno effettuato più volte dei provocatori bombardamenti sul territorio turco e che l’esercito di Ankara, fino a pochi anni fa sovraequipaggiato dalla Nato, è sempre stato colto di sorpresa, fino allo schieramento sul suo confine di una batteria di missili Patriot. L a situazione è tanto più preoccupante che oggi gran parte dei generali dello Stato maggiore turco è in prigione, dove l’ha rinchiuso l’Akp per il ruolo svolto dai militari nello “Stato profondo”.
La Turchia si trova confrontata a
una crisi che potremmo definire di “crescita” e bisognerà vedere se riuscirà o meno a far coincidere le sue ambizioni con le realtà economiche, sociali e politiche del momento. E soprattutto se potrà mantenere la sua compattezza interna e il suo ruolo di Paese dominante tra Paesi vicini, in un ambiente regionale profondamente minacciato dal potenziale di destabilizzazione della crisi siriana.
Detto ciò la Turchia è uno degli elementi chiave dell’improbabile alleanza che sostiene la rivoluzione siriana e che è composta da attori diversissimi tra loro. Tra questi si contano infatti le petro-monarchie del Golfo (all’interno delle quali c’è l’enorme conflitto tra Qatar e Arabia Saudita per il dominio del mondo arabo), le democrazie occidentali ma anche Israele. A loro si oppone il fronte dell’alleanza pro-Assad, nel quale si tengono per mano la Russia, l’Iran, parte dell’Iraq e l’Hezbollah libanese. In questo complicato scenario geopolitico, la Turchia potrebbe interpretare il ruolo del gendarme con l’intento di garantire alla regione una pax turca. Sempre che piazza Taksim non si trasformi in piazza Tahrir.

LA STAMPA 3/6/2013
MARTA OTTAVIANI
Divisi sugli spalti allo stadio, uniti nella protesta. Ieri a Takism, sempre di più la piazza simbolo di Istanbul, il dissenso nei confronti del primo ministro Erdogan è riuscito a coalizzare niente meno che le tifoserie delle tre principali squadre calcistiche della megalopoli sul Bosforo, soprattutto il Besiktas e il Galatasaray, che hanno dato vita a un vero e proprio gemellaggio all’insegna del no all’esecutivo islamico-moderato. Più defilati, ma fino a un certo punto, i tifosi del Fenerbahce, il team di cui il premier Erdogan è un tifoso accanito. «Era anche la stessa squadra di Atatürk, cosa vuol dire?» chiosa una ragazza abbastanza irritata, allontanandosi senza dire nemmeno come si chiami.
«Solo Erdogan poteva fare questo miracolo» scherza con Emre, tifoso del Besiktas e che utilizza una grande bandiera turca come un mantello. Di fianco a lui, Ali,devoto del Galatasaray lo prende in giro sul risultato dell’ultimo derby, che i bianconeri hanno perso con poco onore. Ma appena si parla della situazione del Paese torna serio. «Stanno succedendo cose gravi. Sabato notte poteva essere una strage. Ero lì con dei miei amici mi sono spaventato. C’era la volontà di colpire i tifosi del Besiktas, per questo stiamo solidarizzando». Ricorda un po’ lo schema di Piazza Tahrir quando gli ultrà del calcio divennero protagonisti della rivolta anti-Mubarak.
Il riferimento è agli scontri, i più violenti fino a questo momento, che si sono consumati fra sabato e domenica proprio nel quartiere di Besiktas, a due passi dall’ufficio di Istanbul del Primo Ministro e quando i supporter del team bianconero stavano uscendo dallo stadio. «Era tutto premeditato – dice convinto Emre –. Il Besiktas ha l’unica tifoseria di sinistra e completamente anti-Erdogan della Turchia. Hanno approfittato della protesta per aizzarci, lo sapevano che i tifosi a quell’ora escono dallo stadio e che si sarebbero aggiunti ai manifestanti».
Ieri, mentre decine di migliaia di persone a Istanbul marciavano pacificamente, senza la polizia per strada, cantando e ballando (anche se in serata la polizia è tornata a caricare i giovani e i manifestanti che si avvicinavano alla residenza sul Bosforo di Erdogan sono stati allontanati con i lacrimogeni) e ad Ankara, Smirne e Adana si registravano ancora violenti scontri con le forze dell’ordine, il premier Erdogan è comparso in televisione per un’intervista in esclusiva all’emittente «Haberturk».
La piazza è rimasta senza le risposte che cercava. Erdogan si è soffermato sull’aspetto ambientalista della protesta, spiegando come cambierà Piazza Taksim e dove verrà costruita la moschea, che gli abitanti della zona, nota per i costumi occidentali e la movida notturna, hanno sempre detto di non volere. Sulle accuse di deriva autoritaria nemmeno una parola. Anzi, il premier ha definito social network come Twitter «un problema».
Il governo deve ancora chiarire il bilancio definitivo degli incidenti degli ultimi due giorni, spiegare se davvero ci siano due vittime, come sostiene Amnesty International, quanti siano i feriti gravi e che tipo di gas sia stato usato a Besiktas sabato notte. L’ipotesi «gas orange» è stata accantonata, ma rimane il fatto che sono state utilizzate sostanze altamente urticanti, che hanno creato problemi a molte persone.
I prossimi giorni saranno decisivi per capire se la protesta continuerà o se la protesta pacifica di Taksim ieri abbia in qualche modo chiuso un momento di tensione. I quotidiani di opposizione parlano di vittoria della piazza, ma il premier non è tipo da concessioni.