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 2013  giugno 01 Sabato calendario

CAROL, IL SESSANTOTTO CHE NON PASSA MAI

Negli anni della Dolce vita venne a Roma con una borsa di studio una graziosa ragazza americana, Carol Gaiser, incontrò Moravia che subito prese a corteggiarla con le sue maniere piuttosto irruente, conobbe Pasolini, la Betti, Bertolucci e quel mondo di intellettuali intorno a loro, andò al Festival di Spoleto e lì divenne amica di Silvana Mauri, moglie di Ottiero Ottieri e madre di Maria Pace, l’autrice di Promettimi di non morire. Un libro bello e insolito per lo spirito misericordioso che lo anima, ma anche non facile, che richiede pazienza ed attenzione da parte del lettore per la sua complessità strutturale, per la mancanza di una vera storia, l’inafferrabilità del personaggio principale anche a causa dell’atteggiamento distaccato, tipo I am a camera, dello sguardo della scrittrice. Uno sguardo quasi scientifico che però non riesce a nascondere la sympatheia (compassione) per la vita apparentemente mancata di Carol. Una vita che meritava di essere conosciuta e riconosciuta per la poetica innocenza con cui fu vissuta, per l’inguaribile romanticismo che la segnò, e per la dolcezza mantenuta anche nelle situazioni più scabrose. Tutte cose che appaiono in questo libro-verità che parla di personaggi veri e non inventati, e sembra scritto come un atto di riparazione e un risarcimento dovuto a quella ragazza americana che venne a Roma negli anni Cinquanta.
Maria Pace Ottieri lo costruisce servendosi delle lettere che Carol scriveva a sua madre Silvana in un italiano che le storpiature rendono espressivo e commovente: «Tu sei per me madre sorella amica confidente anima gemella (twin soul) tutte cose carissime in una sola persona... Uno degli evenementi più importanti della mia vita». Tra una lettera e l’altra, per frammenti, episodi, inezie, ricordi, vien fuori sapientemente costruito il ritratto di una ragazza che resta ragazza fino a sessant’anni ed oltre, con gli stessi sentimenti, impulsi errori di un’adolescente.
A volte leggendo di lei ho pensato a quei versi di Rimbaud: «Oisive jeunesse/ à tout asservie/par delicatesse/j’ai perdu ma vie». Anche Carol, incapace di rinunciare a tutti i richiami della sua giovinezza, per delicatezza d’animo perde la propria vita in una specie d’inconcludenza. Non era facile raccontare un personaggio «inconcluso» come questo, ed è la stessa autrice del libro a riconoscerlo: «Se qualche stravagante avesse mai dovuto raccontare la sua biografia si sarebbe subito reso conto della sua forma concava, fatta più di vuoti che di pieni, di quello che avrebbe potuto essere e non era stata». Credo che Maria Pace Ottieri sia in questo caso la «stravagante» e che sia riuscita a raccontare questa biografia mettendo in atto una strategia narrativa fatta di progressive fasi di avvicinamento, come farebbe un antropologo per analizzare l’appartenente a una tribù sconosciuta. Qui la tribù è quella in disfacimento del ’68, un post-hippysmo che continua fuori tempo segnando non solo la vita di Carol ma di tanti altri ragazzi della stessa generazione. I vestiti, il futile piacere dello shopping, le perle, le collane, perfino un bottone di plastica a forma di rosa, sono gli ammennicoli con cui gioca Carol, che entrano nella sua vita come talismani e la fanno sentire meno incerta, ed entrano a far parte non banale anche della sua poesia di cui vengono forniti in appendice diversi esemplari. Silvana, l’amica italiana, quella che da lontano è diventata il suo sostegno, il suo mito e la sua protettrice, quella che deve «prometterle di non morire», riceve attraverso le lettere le sue confidenze. Carol le parla dei suoi vestiti e con gratitudine di quelli che Silvana le regala, dell’amicizia con un bambino, Cristopher, che per lei acquista molta importanza affettiva, del rapporto con la madre e del vuoto che lascia la sua morte, degli articoli e delle poesie che scrive per giornali e riviste, delle amicizie con scrittori, come Nelson Algren di cui si innamora e da cui viene bruscamente e malamente scaricata. Una vita turbolenta, la sua, travagliata anche dalla povertà. Nell’ultima parte del libro, a più di sessant’anni Carol «si innammora» di Roger, un nero alcolizzato e violento, che man mano si rivela capace di corrispondere con sentimento al suo amore. I baci «meravigliosi», i timori, i soprassalti, i litigi di questo amore sono raccontati in una lettera a Silvana nel suo irresistibile italiano storpiato. Le descrizioni di sesso con Roger sono involontariamente esilaranti e l’ingenuità di Carol, anche nei momenti più osé, rifulge; c’è sempre in lei, a sessantaquattro anni, un eccesso di romanticismo da adolescente e una ingenua dedizione che commuove. Man mano raccontando di Carol, della sua vita, dei suoi amori, si entra nella vita e nelle case di un’America povera, sconvolta dalla tragedia dell’undici settembre, da una violenza diffusa, ma tutto è raccontato come il contesto naturale in cui si svolge la vita di Carol, e il libro si arricchisce sempre più di nuovi spunti e sembra quasi che la narratrice si trasformi in sociologa, parla dei bianchi e dei neri, della vita delle famiglie, dei funerali e delle funeral homes, delle tensioni sempre affioranti. Nella parte finale, quasi un capitolo a sé stante, la narratrice Maria Pace Ottieri incontra per la prima volta Carol nello squallore del quartiere povero di New York dove lei abita con Roger. Tutto è raccontato dal vero, senza pathos, con una straziante attenzione per ogni minimo particolare ed è anche qui, in quest’analisi spietata che lascia un segno nell’animo del lettore, il pregio di questo libro.
Raffaele La Capria