Enrico Deaglio, il Venerdì 31/5/2013, 31 maggio 2013
INCHIESTA SUI 101
Come si dice nel nostro ambiente di investigatori : « Speriamo che non mi tocchi il Pd». Invece l’Agenzia l’ha assegnato proprio a me: preparare una relazione sul grande mistero dei 101 che hanno silurato Romano Prodi presidente della Repubblica.
Ve lo ricordate: tutto il Pd ad applaudire il suo nome in piedi, e solo dopo poche ore, 101 coltellate nel buio del voto segreto. Il segretario che si dimette mormorando: «Uno su quattro mi ha tradito». Ci avevamo messo duemila anni ad accettare un Giudia ogni dodici (e poi tanto si impiccava); adesso ce ne siamo beccati uno su quattro, ovvero tre su dodici. E tutti nello stesso partito. Roma ne ha viste tante, di congiure: da quella che fermò Giulio Cesare, alla notte del Gran Consiglio, alla saga dei Borgia. In tempi moderni, l’ascesa al Quirinale (istituzione laica) ha visto per esempio, il presidente in pectore trovato morto nel bagagliaio di un’automobile e, nemmeno vent’anni dopo, l’apocalisse a Palermo. Questa volta non è scorso il sangue, ma – ha ragione l’Agenzia – qui c’è materia per infotainment, storia, serie televisive. Ma si parte male: tra i 101, diventati famosi come i cani dalmati del film, nessun vanitoso e nessun pentito. Tutti zitti.
Il caso era di quelli rognosi, davvero. Eccitante come intervistare i pensionati sulle panchine dei giardini pubblici di Corleone. Come ci insegnano i più vecchi, quando indaghi su un delitto, «guarda a cosa non è successo dopo». La cosa più strana sulla Congiura dei 101 è la consegna del silenzio che è seguita. No c’è stato un anonimo, né una fonte confidenziale; nessuno ha textato o twittato niente di rivelatore. Della decisione di candidare Prodi non esiste alcun verbale, né è stata messa agli atti nessuna contrarietà. Tutta la Rete – caso unico – si è dimostrata riservatissima. L’altra stranezza è che tutto sia avvenuto al Capranica, un vecchio cinema di Roma alle spalle di Montecitorio. I «grandi elettori» del Pd erano talmente tanti che non si trovavano altri posti.
Fuori dal cinema, come ai tempi dell’antica Roma delle turbe catilinarie, li assediavano sciami di folla urlante. C’era la signora del Pd che bruciava la tessera; c’era il disoccupato che voleva bruciarsi lui; c’era la caccia all’uomo nelle trattorie. («A Franceschì, che te magni, li mortacci tua!») e il killer di Rosarno è arrivato dopo, ma solo per caso. I grandi elettori del Pd attraversavano la folla e si asserragliavano nel cinema, dove non erano ammessi giornalisti. Di quello che succedeva dentro – volti, emozioni – nulla. Non un audio, non un video con l’iPhone. Curioso, no? Soprattutto in tempi di trasparenza e streaming. Il Pd si riuniva lì al Capranica, perché era diventato troppo grosso, ingrassato dal Porcellum. Come ha insegnato a tutti il tenente Colombo, quando arrivi sulla scena di un delitto, devi farti una mappa di chi c’era e di dove stava.
Dunque, il Pd alla Camera ha 297 deputati e al Senato ha 111 senatori. In totale sono 408 parlamentari, un’enormità rispetto ai 290 della precedente legislatura. (Cosa vi dicevo: il Porcellum logora chi non ce l’ha). Il Pd si è molto rinnovato, come sapete: 156 donne, 200 parlamentari di prima nomina; ma gli eletti riflettono ancora l’appartenenza ai due antichi ceppi di nascita. Il 56 per cento discende dal Pci poi diventato Pds, poi Ds (e per effetto del bonus, da 167 sono diventati 228); il 26 per cento discende dalla vecchia Dc, poi diventata Partito popolare, poi Margherita; e da 101 che erano sono diventati solo 107. Ben 290 sono stati eletti con le primarie, ma ben 113 sono stati eletti nel listino del segretario, che ha distribuito un centinaio di caselle ai vari capi corrente. È nata così la nuova corrente renziana (51, di cui 14 eletti nel listino), si sono rinforzati (ieri portaborse, oggi deputati) i franceschiniani, fioroniani, e mariniani. Nella componente ex Pci, la parte del leone la fanno i dalemiani, molto forti al Sud, con un particolare gruppo, i «giovani turchi» che ne riuniscono tra i 30 e i 50 a seconda delle stime. I prodiani invece sono solo due. Molti di questi neo eletti sono intimamente convinti che nella prossima legislatura la bonanza non si ripeterà.
I loro elettori non vogliono che facciano un governo con Berlusconi, anzi il contrario. Il Pd non ha mai trovato il tempo e luogo per riunire questa grande massa di deputati, senatori e delegati regionali. Nessuno evidentemente aveva loro niente da dire. Come era apparso evidente dalla sera dei risultati, Berlusconi, da sconfitto certo si era trasformato nel vincitore politico delle elezioni. Non solo il Pdl e Lega erano arrivati a un soffio da Pd-Sel, ma lo tsunami di Beppe Grillo aveva lavorato per lui. Adesso è Berlusconi a distribuire le carte, con un solo punto fermo: il Cavaliere non vuole Romano Prodi al Quirinale; perché Prodi l’ha già battuto due volte e non ha timori reverenziali.
Il 13 aprile, a Bari, Berlusconi arringa la folla che al nome di Prodi fischia e ulula. Berlusconi grida: «Con Prodi presidente ci toccherebbe andare all’estero!». Il messaggio è rivolto al Pd con cui sono in corso trattative. Il Pd non reagisce. Ma Berlusconi ha buone informazioni sul futuro alleato. Per esempio, una notizia dall’interno filtrata al Corriere della Sera: 120 parlamentari Pd sono pronti a mettere la loro firma sotto un documento contro la candidatura di Romano Prodi. (Strano, no? 120. La velina si era sbagliata di poco). Gli elettori dei Pd sono allibiti dal comportamento dei propri leader. Il 17 aprile Repubblica dà notizia di un incontro a Roma, a casa di Enrico Letta (nel popolare quartiere rosso del Testaccio), dove Berlusconi è arrivato a bordo di una Subaru. Ad attenderlo Pier Luigi Bersani, Maurizio Migliavacca, Vasco Errani, Dario Franceschini. Viene raggiunto l’accordo: il presidente sarà Franco Marini, 80 anni, ex segretario della Cisl ed ex presidente del Senato. La candidatura Marini (che fallirà per la defezione dichiarata dei deputati renziani e di molti giovani) provoca una specie di rivolta. Davanti al Capranica ci sono urla, insulti, minacce fisiche. Dalla periferia, occupazioni delle sedi. (Qui tutto è ampiamente enfatizzato dalla Rete). Sel annuncia che uscirà dalla coalizione; vuol dire che se ne va quel 3,5 di voti, che ha reso possibile al Pd la «spropositata maggioranza».
La dirigenza del Pd capisce (fisicamente) che non può stare immobile. Il solo nome che può placare la base è quello di Romano Prodi. Il professore, nel Mali come inviato dell’Onu (non è un incarico eccentrico, nel Mali l’Europa si gioca i suoi rapporti con il Nord Africa per il prossimo decennio) viene raggiunto al telefono; chiede garanzie, i maggiorenti del partito gliele danno. (Siamo alla quarta votazione, la maggioranza richiesta è scesa a 504 voti; Pd e Sel da soli ne hanno 496. Sembra un gioco da ragazzi). La mattina del 19 aprile, alle 9, i primi tweet dei giornalisti: «Prodi candidato, standing ovation per lui»; come una fumata bianca dal conclave. Non vengono forniti molti altri particolari. I giornali si apprestano a scrivere il grande ritratto del 12° presidente della Repubblica italiana. L’inviato della Bbc a Roma comunica: «Official. Romano Prodi is the new Head of State. He is going to be elected later today. It is a Matteo Renzi’s victory». Dalle testimonianze che ho potuto raccogliere, la standing ovation non fu corale. Anzi, una parte della platea rimase fredda e seduta. Diverse voci dalla sala chiesero di votare, ma allora gli applausi si intensificarono e Bersani disse: «Approvato per acclamazione». Ma era il primo a sapere che per tutta la notte il nome di Prodi era stato in ballottaggio con quello di Massimo D’Alema, portato avanti, con grande energia e coinvolgendo le federazioni, dai «giovani turchi». Nella dirigenza, apertamente Anna Finocchiaro era schierata per D’Alema, mentre i popolari stavano zitti, particolarmente offesi per il trattamento che Marini aveva subito.
La mattina del 19 aprile lo storico selciato di fronte a Montecitorio passò dai social-confusi di sinistra alla destra con le idee chiare. Alessandra Mussolini, con un No, questo no sulle tette, fu la più svelta a occupare gli schermi tv. I pezzi grossi del Pdl annunciarono «Prodi al Quirinale è un colpo di Stato», Schifani concluse: «Se viene eletto si torna a votare». Ma la decisione chiave fu quella presa da Berlusconi a metà mattina: «Pdl e Lega non partecipano al voto». Era rischioso, perché spingeva il Pd a compattarsi; ma Berlusconi era convinto che fosse un bluff. (Come in Spagna nel 1936. Quando chiesero a Francisco Franco, quale delle sue quattro colonne avrebbe preso Madrid, il generale rispose: la quinta columna: quella che stava già a Madrid). In aula il primo a capire è Marco Di Maio, deputato Pd, che si era laureato con Prodi professore. Il programma sul suo laptop avverte dopo pochi minuti che per Prodi è la disfatta. Pippo Civati, tra i più attivi nel sostenere Prodi, informa Matteo Renzi. Si può ancora preparare il terreno per un’altra votazione, forse è solo una somma di errori non premeditati. Il sindaco di Firenze invece è il primo a twittare: «Prodi presidente non esiste più».
Altre premonizioni. «Nelle ore successive alla candidatura», racconta Sandra Zampa, prodiana di ferro, «mi avevano riferito che c’erano problemi a votarlo da parte dei dalemiani toscani. In aula ho chiesto al presidente della Regione Enrico Rossi. Era rabbuiato: "Sto facendo il possibile"». Poi c’erano le foto. Sempre Zampa: «Il primo che mi ha mostrato la foto della scheda votata è stato Stefano Esposito, senatore "giovane turco" di Torino. Strano che poi il giorno dopo anche Giuseppe Fioroni, ex popolare, abbia vantato anche lui la foto della scheda votata Prodi. Chi dice che non si tratti di una sola foto, sempre la stessa, spedita da cellulare a cellulare?». Alla fine Romano Prodi ha preso solo 395 voti. Poste sul tavolo settorio, alcune schede sono facili da interpretare: ci sono quindici voti a D’Alema, 15 bianche. Questi trenta voti possono essere attribuiti – secondo logica – ai dalemiani. Ci sono quattro nulle: un evidente segno di inimicizia verso Prodi. La curiosità aumenta con la Cancellieri che ottiene 9 voti in più di quelli di Scelta Civica e, soprattutto, con Stefano Rodotà che ottiene 51 voti in più di quelli del Movimento Cinque Stelle che lo aveva candidato. Quei 9 + quei 51 sono il segno del complotto. Immediatamente, i «giovani turchi» hanno accusato Sel di aver votato Rodotà. Loredana De Petris, di Sel, però ha calato l’asso: «Non siamo stati noi. Tutte le schede di Sel sono siglate R. Prodi». Pippo Civati aggiunge un altro tassello: «Alla terza votazione, una ventina di parlamentari che conosco aveva votato Rodotà, ma sono assolutamente certo, perché lo abbiamo discusso insieme, che alla quarta sono confluiti su Prodi. (E mi fa un elenco di parlamentari lombardi, ma non solo). E allora: se non è stata Sel e se non sono stati i giovani civatiani, chi ha votato Rodotà alla quarta votazione?
Beh, qualcuno con una mente machiavellica, lo stesso che ha convogliato, con finezza d’artista, i voti sulla Cancellieri. Cancellieri era il candidato di Scelta Civica, ma l’ipotetico stratega immaginava che un po’ di voti pd a Cancellieri avrebbero compensato un po’ di voti (previsti) di Scelta Civica a Prodi. E invece, mannaggia: Scelta Civica ha votato compatta Cancellieri e poi si è ritrovata 9 voti in più.
Il precedente è nel romanzo di Agatha Christie Assassinio sull’Orient Express, con il passeggero trovato ucciso nella sua cabina da 12 coltellate. Dodici sospettati avevano usato lo stesso coltello, ognuno per la sua ragione. L’eterno sospettato numero 1, Massimo D’Alema ha candidamente dichiarato al Corriere della Sera il primo maggio scorso, che «il suo parere era che alla quarta votazione, invece di Prodi, bisognasse votare scheda bianca». Per poi, alla quinta, votare lui.
È andata male, ci sarà un’altra occasione. Poi, spulciando online, ho trovato una parlamentare Pd di Cosenza, Enza Bruno Bossio (che credo diventerà importante) che rifiuta il termine traditori per i 101. Piuttosto, sono stati dei facilitatori del corso della storia, di un nuovo partito, etc.
In fondo alla scheda compilata, l’Agenzia ti lascia quattro righe sotto la casella «commenti». Io ho scritto che Romano Prodi sarebbe stato un buon presidente della Repubblica, ma che gli anziani del suo partito gli hanno fatto un grande dispetto, usandolo quando ne avevano bisogno e poi pugnalandolo. La congiura contro di lui resterà nel Pd come una ferita infetta, mal suturata, visibile, gonfia. Poi ho aggiunto: per favore, non mandatemi più in posti così, dove nessuno si vuole bene.
Enrico Deaglio