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 2013  maggio 30 Giovedì calendario

I CONTI SONO A POSTO MA ORA PER RIPARTIRE SERVE UNA CURA CHOC

Quattro anni di sangue, sudore e lacrime. Quat­tro anni di politica eco­nomica sbagliata. Quattro anni di sacrifici. Non eravamo senza colpe, ma la cu­ra impostaci dall’Europa a trazione tedesca è stata contropro­ducente. Adesso che abbiamo fatto i compiti a casa possiamo ri­cominciare a far sentire la no­stra voce. Non per tornare al las­sismo o alla spesa facile, bensì per riportare l’Europa finalmen­te su un sentiero di crescita. Il prossimo Consiglio europeo del 27-28 giugno sarà la grande occasione. Per l’Italia, per il go­verno Letta, per una nuova Euro­pa.
In un intervallo di tempo com­preso tra il 2008 e il 2014, in Italia si sono susseguite ben 4 mano­vre finanziarie per ricondurre i conti pubblici italiani su un sen­tiero di sostenibilità, a breve e medio termine. Le prime 3 realizzate dal governo Berlusconi, per un importo pari a 265 miliar­di di euro. L’ultima, per un im­porto di 63 miliardi di euro, deci­sa dal governo Monti. Un re­cord. La più dura cura da cavallo mai somministrata all’econo­mia italiana nel biennio 1992-93, Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, varò una manovra di 92.000 miliardi di vecchie lire (oltre 45 miliardi di euro). Sembrava il massimo possibile. Oggi è un pallido ricor­do. Quello di Amato fu un inter­vento duro accompagnato da una svalutazione monetaria che ridistribuì il peso del salasso e l’economia reale, attenuando la portata sociale della mano­vra. Nel triennio successivo il tas­so di sviluppo dell’economia italiana fu superiore al 3%.
Sul piano internazionale, se si esclude la Grecia, che non fa te­sto, nessun Paese ha osato tan­to. Nel 2012 il governo olandese doveva varare una manovra pa­ri ad appena 1 punto di Pil (con­tro i 4 punti in media per anno delle manovre italiane), per rien­trare nei parametri di Maastri­cht. Si scelse invece la strada del­le elezioni anticipate. Il risultato fu una completa frammentazio­ne del quadro politico e un go­verno di grande coalizione, con­tro riverberi populisti e contro pulsioni antieuropee che non accettò la cura dell’austerity, preferendo invece ricorrere alla deroga di un anno della proce­dura d’infrazione.
La crisi italiana è ben più gra­ve di quella del 1929, che nella storia contemporanea resta l’ar­chetipo di ogni dramma. Allora (1929-1933) il Pil si ridusse del 5,4%, già oggi la caduta dal 2009 è stata del 7%. In quegli anni la produzione industriale si ridus­se del 22,7%, oggi siamo al 25% ed oltre. I consumi calarono del 9%, mentre oggi siamo già oltre la soglia del 10%. Ed infine la disoccupazione. Nel 1933 il tasso massimo di disoccupazione fu pari al 21% della forza lavoro. Nel marzo di quest’anno abbia­mo raggiunto un valore pari all’11,5%. Se consideriamo la cas­sa integrazione e rapportiamo il numero delle ore perdute a quel­le totali lavorate, si deve aggiun­gere un altro 14%. Il totale supe­ra pertanto il 25%. Ma negli anni Trenta circa il 30% della popola­zi­one italiana viveva di agricoltu­ra, un settore meno sensibile al­le variazioni del ciclo economi­co­ e un grande serbatoio che pre­servava gran parte del popolo italiano dai morsi della crisi.
Quei 328 miliardi cumulati dal 2008 al 2014 sono quelli che ci consentiranno di chiudere quest’anno il bilancio dello Sta­to in pareggio. Quei 328 miliardi servivano. Sbagliata è stata inve­ce la manovra del governo Mon­ti: tutta tasse (Imu, Tares eccete­ra), pochi tagli, zero sviluppo. Sbagliata è stata la riforma delle pensioni, che ha prodotto il gua­io tossico degli esodati e che ha finito per costare più dei rispar­mi prodotti (oltre 10 miliardi di costi a fronte di 13 miliardi di ri­sparmi). Sbagliata è stata la riforma del mercato del lavoro, che è stato reso più rigido sia in entra­ta che in uscita, con il risultato di un aumento drammatico della disoccupazione. Un overshoo­ti­ng pagato caro in termini di re­cessione, talmente profonda in Italia e nell’area euro, che ha fini­to per bloccare la trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Dra­ghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche cen­trali mondiali. La liquidità non si trasforma né in credito a im­prese e famiglie né in investi­menti né in consumi.
E se il presidente della Com­missione europea, José Manuel Barroso, definisce «elevatissi­mo» il livello del debito pubblico in Italia, qualche colpa ce l’ha anche lui. Perché quel debito al­to­ è il frutto della politica econo­mica sbagliata imposta dalla Germania ai paesi dell’Eurozo­na negli anni della crisi, basata su conti sbagliati, su teorie sba­gliate, che la Commissione ha subìto passivamente, senza muovere ciglio.
Del resto, che il percorso im­boccato dall’Europa a partire dal 2008-2009 fosse errato ce l’ha dimostrato scientificamen­te il Fondo monetario interna­zionale: politiche di compressio­ne della domanda interna in pe­riodi di decrescita economica ha effetti recessivi pari a 3 volte quelli che si verificano in perio­di di aumento del Pil. Così come sono stati impietosamente sve­lat­i gli errori contenuti nello stu­dio di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhard, due economisti di Harvard, sulla relazione negati­va tra debito e crescita, su cui si è basata la politica economica eu­ropea negli anni della crisi.
Come se ne esce? Con uno choc immediato. Gli imprenditori devono ritrovare il gusto del rischio, reinvestendo nell’azien­da le risorse accumulate in pas­sato. Devono puntare a far cre­scere la propria attività, aumentando la dimensione del pro­prio business, ricorrendo anche alle forme più moderne di fusio­ni e acquisizioni o dell’integra­zione produttiva. Il mercato del lavoro deve essere sbloccato. Ba­sta con la difesa delle posizioni di rendita e le grandi fratture che dividono insider ed outsider. Il salario deve essere più stretta­mente correlato ai sottostanti li­velli di produttività ed al diffe­rente costo della vita, che carat­terizza le diverse parti del territo­rio italiano. Occorre, poi, avvia­re una riflessione sul pubblico impiego. I diritti del lavoratore che opera nel pubblico richiedo­no una protezione maggiore ri­spetto al lavoratore comune, che è maggioranza? Esiste poi il drammatico problema dell’eva­sione fiscale, da combattere ri­correndo all’ intelligence, piutto­sto che a strumenti vessatori.
Infine, l’Europa sarebbe «ga­rantita» con l’adozione di un pia­no di rid­uzione permanente del­la spesa corrente, che compren­da la piena implementazione dei costi standard in sanità, non­ché, un piano credibile di attac­co al debito pubblico, con relati­vo risparmio in termini di spesa per interessi. Tutte queste misu­re possono essere illuminate dalla saggezza della politica. Al­trimenti sarà il mercato ad im­porle con la necessaria brutali­tà. È quanto è già avvenuto in Grecia e sta avvenendo in Spa­gna, il Paese che più somiglia al­la realtà italiana.
Questo choc deve essere il punto di partenza. Se saremo in grado di prendere quelle misu­re, anche il verdetto dell’Euro­pa, di fronte all’ipotesi di un mancato rispetto delle regole di Maastricht, potrà essere, in qual­che modo, contrastato. Per far ri­partire l’economia riteniamo fondamentale l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa, il bloc­co dell’aumento dell’Iva, la tota­le defiscalizzazione e decontri­buzione delle nuove assunzioni di giovani, la riforma dei poteri di Equitalia e la sburocratizza­zione delle procedure ammini­strative per avviare attività pro­duttive. Riportare l’Italia su un sentiero di crescita diventa più facile se il sentimento complessi­vo del mercato diventa più positivo.
Questa è la lezione da trarre dalla sconcertante vicenda dell’Imu. L’averla introdotta, nel­l’attuale configurazione, ha de­terminato un forte orientamen­to negativo delle aspettative del mercato, deprimendo oltre mi­sura il settore dell’edilizia: uno dei pochi volani, oltre le esporta­zioni, dell’economia. Oggi sia­mo in condizione di ripartire. Per portare nuovamente l’Italia a creare quella ricchezza che è il presupposto di una società mi­gliore: maggior benessere, più equità e giustizia sociale, certez­ze per il futuro. Contiamo su un grande sforzo collettivo per rag­giungere obiettivi che sono alla portata del nostro popolo.