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 2013  maggio 27 Lunedì calendario

FRANCESCHINI, L’ETERNO SECONDO VITTIMA DEI LEADER IN DISARMO

Dopo avere dato cazzotti per anni, Dario France­schini ne ha presi a biz­zeffe negli ultimi mesi.
L’ultimo sergozzone, quello degli sms in favore dell’affascinante Michela Di Biase, è stato il più imbarazzante perché la rela­zione tra d­i due è stata improvvi­samente messa a nudo. Ha fatto anche un po’ pena che un gesto affettuoso e privato - chiedere via cellulare agli amici di votare la sua bella, candidata Pd alle co­munali romane - sia stato stra­volto e sbeffeggiato dal sottobo­sco grillino. La batosta, in sé, è re­lativa: il segreto sarebbe fatal­mente venuto alla luce, anche se c’è modo e modo. Però,si è som­mata alla teppistica chiassata dei soliti grillini davanti al risto­rante in cui Franceschini stava mangiando e, soprattutto, allo smacco che ha avuto non diven­tando presidente della Camera.
Il povero Dario ci contava da tempo. Pier Luigi Bersani, in cambio della pace interna, glie­lo aveva promesso. Così, quan­do nelle elezioni di febbraio, sia pure di un soffio, la sinistra ha prevalso, Franceschini ha co­minciato a entrare nella parte. Si è riletto tutti i discorsi di insedia­mento dei predecessori al supre­mo seggio di Montecitorio, ne aveva tratto spunti e aveva ab­bozzato il proprio intervento improntandolo alla massima no­biltà. Avrebbe dovuto farsi per­donare dal centrodestra le cadu­te di stile del passato con i conti­nui attacchi al Cavaliere Berlu­sconi, apostrofato come «omi­nicchio», «l’uomo che scredita l’Italia», «è in stato confusiona­le», «è l’Antonio La Trippa del film di Totò», ecc. Nell’orazione immaginata aveva trasfuso tut­ta la sua sapienza di scrittore di romanzi (il più noto, Nelle vene quell’acqua d’argento, del 2007, è stato premiato in Italia e in Francia) e a ogni rigo traspariva l’intenzione di riscattare le mise­rie del predecessore, Gianfran­co Fini, e ispirare la propria presi­denza alla più perfetta imparzia­lità. Il sogno, com’è noto, si in­franse per il fallimento di Bersa­ni che, mendicando l’appoggio dei grillini al suo sperato premie­rato, sacrificò il volto noto e stan­tio di Franceschini, per la faccia nuova e fresca (salvo ritocchino?) di Laura Boldrini. Va dato atto a Dario che reagì con soavi­tà a una delusione cocente. Già il giorno successivo salutava con ostentato umorismo: «Pia­cere, sono Dario Franceschini, l’ex presidente della Camera».
A ripescarlo, è stato Enrico Let­ta che lo ha nominato ministro del suo governo per i Rapporti con il Parlamento. Apparente­mente un dicastero di serie B, in realtà molto di più. L’incarico, al nocciolo, è imbrigliare il Pd, i cui umori anarcoidi sono un perico­lo per il governo. Di fatto, una supplenza di Roberto Speranza, l’imberbe e smarrito capogrup­po - ennesimo frutto del cupio dissolvi di Bersani - inadeguato a guidare l’irrequieta masnada dei deputati piddini. Franceschi­ni è deciso a farcela, anche per non sfigurare con Letta. Tra lo­ro, corre un parallelismo.
Tutti e due, per ragioni anagra­fiche, terze file della defunta Dc hanno percorso tratti di strada insieme ma Letta, nonostante sia più giovane (46 anni, contro i 54 dell’altro), quasi sempre un passo avanti. Sono stati entram­bi vicesegretari del Ppi (l’erede della Dc, seppellita da Tangento­poli) quando, a metà degli anni ’90, lo guidava Franco Marini. Poi, col secondo governo Ama­to (2000-2001), Letta fu ministro dell’Industria e il Nostro sottosegretario alla presidenza. Oggi il giovane è premier, l’altro mini­stro senza portafoglio. La diversi­tà essenziale tra loro è che Letta, si direbbe per decreto divino, è stato sempre tra i primi della classe anche se non ricopriva particolari ruoli; Franceschini, invece, dovendo barcamenarsi, ha sviluppato uno spirito di so­pravvivenza confinante con le ineleganze del carrierismo.
Dario ha sempre galleggiato appollaiandosi sulla spalla del leader di turno. Dopo Franco Marini, cui abbiamo accennato, venne in auge Romano Prodi. Franceschini ne divenne all’istante il reggicoda, fedele in questo al suo debole per i dc di si­nistra emiliani, come l’idolo gio­vanile, Benigno Zaccagnini, il cui ritratto ha sempre con sé. Quando Prodi fu scalzato da Max D’Alema, Franceschini traslocò all’istante col nuovo venu­to diventando sottosegretario del suo governo (1998). Sorto l’astro di Walter Veltroni, fonda­tore nel 2007 del Pd, Dario gli sal­tò sulle ginocchia e si autopro­clamò suo giannizzero in rappresentanza degli ex dc del nuo­vo partito. La fedeltà alla causa gli procurò per otto mesi nel 2009 la gloria di segretario prov­visorio del Pd. Al gong, fu sostitu­ito da Bersani che, nel confronto diretto delle primarie, prese il doppio dei suoi voti. Segno che era stato semplicemente sopportato dalla maggioranza ex co­munista del Pd. Con Pier Luigi, com’è nel suo stile prono, è anda­to d’accordo ma appena ha visto all’orizzonte l’uomo forte -nelle fattezze di Mario Monti- si è subi­to schierato con lui e contro le elezioni anticipate che avrebbe­ro spalancato a Bersani Palazzo Chigi. Di fatto, uno sgambetto. Oggi, che da ministro deve la ca­rica anche al centrodestra che appoggia il governo, ha perfino smesso di prendersela col Cav che per lustri gli era apparso il ne­mico da abbattere, il mostro da sventrare, l’emblema del pecca­to e della vergogna nazionale. Questo opportunismo carrieri­sta non esaurisce però la complessità del nostro personaggio.
Avrete notato che da due anni, Dario inalbera una barba nera da pope che stride col volto glabro e gentile cui ci ave­va abituati da lu­stri. Coincide con la separazione dal­la m­oglie e il fidan­zamento con Mi­chela Di Biase. È -­ipotizzo- una bar­ba penitenziale, espressione del senso di colpa che, nonostante la felicità del nuo­vo amore, un cre­dente come Fran­ceschini non può non provare. A Ferrara, città nata­le di Dario, la sua era considerata una famiglia mo­dello. Ogni dome­ni­ca a messa insie­me, lui, la moglie e le due figlie. La consorte, Silvia Bombardi, era la più bella ragaz­za della scuola e il loro fidanza­mento risaliva ai tempi del liceo.
Già insieme, quando Dario face­va i primi passi nella Dc, fedelis­simo di Ciriaco De Mita alle cui riunioni in Irpinia correva per tornare subito a Ferrara e riab­bracciare la sua Silvia. Con lei al fianco debuttò nel grosso studio legale di Via Bersaglieri del Po, con i mega clienti della nomenclatura comunista locale, dalle coop rosse, all’Unipol. Un idillio durato un terzo di secolo, inter­rotto dalla folgorante Michela, trentaduenne dai capelli neri e gli occhi azzurri, laureata in Sto­ria dell’Arte, romanissima e poli­ticamente impegnata. Così, an­che chi moraleggiava sugli sfarfalleggiamenti del Cav con l’irri­dente: «Fareste educare i vostri figli da uno così?», è stato travol­to dalle alterne vicende delle umane sorti. Gli servirà di lezio­ne?