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 2013  maggio 27 Lunedì calendario

UN DOVERE RIFIUTARE IL RIGORE PIU’ CIECO

Quanto durerà? È il nuovo gran­de interrogativo che serpeggia in Europa. Se François Hollande è costretto a rivendicare più Europa nella gestione dell’economia, qualcosa significa. Non è solo una mos­sa tatt­ica per giustificare la deroga al Pat­to di stabilità, ma la consapevolezza che alla lunga la moneta unica rischia di col­lassare. L’euro può sopravvivere a se stesso solo se le economie dei Paesi membri iniziano un cammino virtuoso, di crescita. C’è questa consapevolezza in Italia? In larga misura sì. Manca l’azio­ne politica. Abbiamo fatto tutto quello che l’Europa a trazione tedesca ha chie­sto e imposto a Monti. La riforma delle pensioni ha prodotto il guaio tossico de­gli esodati; il mercato del lavoro è stato reso più rigido, per non parlare dell’Imu e del suo inasprimento. Un overshooting che ha compromesso i risultati spera­ti. E l’abbiamo pagato caro in termini di recessione, che ha bloccato la politica monetaria della Bce di Mario Draghi, im­pedendo alla liquidità immes­sa dalla banca centrale di tra­smettersi all’economia reale e trasformarsi in credito a impre­se e famiglie, investimenti e consumi. Ciò significa che la ri­duzione dei tassi di interesse da parte della banca centrale non determina livelli di reddito più elevati, come invece previ­sto quando i canali di trasmissione di un’espansione mone­taria all’economia reale funzionano.
In Italia i conti pubblici sono a posto. Il deficit rispetto al Pil è al 2,9%, quello strutturale e allo -0,7%, in linea con il fiscal com­pact.
Persino l’Olanda, che fino a qualche tempo fa faceva par­te del gruppo degli intransigen­ti, oggi è costretta a cedere e a chiedere anche per se stessa una deroga al Patto di stabilità. Unendosi così a Francia e Spa­gna, per non parlare di quei Pae­si che sono fuori dai parametri già da tempo: Portogallo, Irlan­da, Cipro, Malta, Slovenia, Gre­cia e Slovacchia. Sono 10 su 17 i Paesi dell’Eurozona che non ri­spettano il limite del 3% nel rap­porto deficit/Pil. L’Italia è nella minoranza dei «fortunati» set­te. Ma tutti i nostri sforzi perdo­no di efficacia davanti al solito rimbrotto: «Avete un debito pubblico troppo elevato». Ve­ro, ma è aumentato (+24,4% tra il 2006 e il 2014) a un ritmo ben inferiore rispetto a quello degli altri Paesi (+71,8% la media di Belgio, Francia, Germania, Gre­cia, Portogallo, Irlanda e Spa­gna). La Germania non compu­ta nel suo debito pubblico i co­sti del welfare, o il rapporto sul Pil passerebbe dall’85,8% uffi­ciale al 111,8%. Eppure questa montagna, in termini nominali ben superiore allo sbilancio ita­liano, non fa paura per il forte at­tivo della bilancia dei pagamen­ti tedesca, conseguenza di un euro sottovalutato rispetto al vecchio marco tedesco che rap­presenta il dividendo (avvele­nato) di Maastricht.
Il sistema basato sulla riduzio­ne dei tassi di interesse per i Pae­si «cicala» e un tasso di cambio che ha rilanciato il commercio dei Paesi «formica» regge fino a ottobre 2009, quando si scopre un buco nei conti pubblici di Atene, che fa scoppiare la bolla del dividendo egoistico di Maa­stricht, mette a nudo le debolez­ze dell’euro e dell’architettura istituzionale che lo sorregge. Gli squilibri macroeconomici vengono a galla: la Germania si è arricchita grazie al cambio eu­ro/marco di fatto sottovaluta­to. Il Fondo monetario interna­zi­onale ha recentemente calco­lato che la Germania occupa il 14,8% del totale dei flussi finan­ziari mondiali. Al primo posto. Più della Cina (11%) e dell’Arabia Saudita (10%), nonostante quest’ultimo sia il principale Paese esportatore di petrolio.
Sono i vantaggi dell’egemonia, si potrebbe rispondere. A sua volta figlia dei duri sacrifici fatti in passato. Agli inizi del 2000 l’allora cancelliere tedesco,Ge­rhard Schröder, compresse la domanda interna per aumenta­re la produttività. Fu una scelta lungimirante in una fase espansiva dell’economia internazio­nale, soprattutto sostenuta dalla locomotiva americana. E dai debiti contratti. Proprio quel rimprovero che oggi il Fmi rivol­ge, nemmeno tanto velatamen­te, ad Angela Merkel e alla sua ossessione per l’austerity. Vale a dire la dimostrazione scienti­fica che la compressione della domanda interna in periodi di decrescita economica ha effet­ti recessivi pari a 3 volte quelli che si verificano in periodi di au­mento del Pil. Non dimenti­chiamo che fu proprio la «vir­tuosa» Germania a sforare, nel 2003, in buona compagnia del­la Francia, i parametri di Maa­stricht, arrivando a definire «stupido» il Trattato.
Eppure quando Draghi, pur con mille difficoltà, cerca di far convergere la politica moneta­ria della Bce verso un’imposta­zione espansiva, la Bunde­sbank ne critica i comporta­menti. Il suo presidente, Jens Weidmann, ha ribadito che gli Stati devono poter fallire, e che la possibilità di default è un ele­mento chiave per la disciplina dei mercati. Coinvolgere i credi­tori­ privati nel fallimento dei Pa­esi sovrani vuol dire creare una saldatura di fatto tra crisi del de­bito pubblico e crisi finanzia­ria. Occorre invece al più pre­sto tagliare i legami tra banche e governi, che sono troppo de­boli per sostenerle. L’obiettivo dell’unione bancaria, di cui si parla da più di un anno, era pro­prio questo. Sì, ma dov’è finita? E il Meccanismo europeo di sta­bilità? Formalmente è operati­vo, ma di fatto è bloccato dalla Germania, che pretende un si­stema di vigilanza unico sul set­tore bancario, che non potrà esistere se non come conseguenza della relativa unione.
E di Eurobond, Project bond, Stability bond, chi ne ha sentito più parlare?E dell’unione politica, con il relativo rafforzamen­to del quadro istituzionale at­tu­ale e l’elezione diretta del pre­sidente della Commissione eu­ropea? E dell’unione fiscale, che preveda controlli uniformi delle politiche di bilancio dei singoli Stati e l’armonizzazio­ne delle politiche economi­che?
Lo stesso vale per l’occupazio­ne giovanile. Non servono pal­liativi, o soluzioni di emergen­za: occorre una strategia com­plessiva. Dov’è finito quel Pat­to per la crescita e l’occupazio­ne, tanto acclamato al Consi­glio europeo del 28-29 giugno 2012? Fra il dire e il fare, in Euro­pa, c’è uno stallo enorme, e una crisi economica, finanziaria, istituzionale e sociale senza precedenti. Altro che rischio di break up superato, oggi è anco­ra più grave del passato, perché la diffidenza dei popoli non è so­lo nei confronti della moneta unica, ma della costruzione eu­ropea in generale. Su questo il Parlamento italiano si è espres­so chiaramente con la risoluzio­ne approvata alla Camera sulle comunicazioni del premier, En­rico Letta, con riferimento al Consiglio europeo del 22 mag­gio. Il documento rappresenta la richiesta all’Europa di un cambio di passo. Si tratta di uscire dal rigore cieco, da una pervicace chiusura a qualsiasi formula che non sia austerità e poi ancora austerità, per aprire il respiro allo sviluppo.
Mentre negli altri Paesi euro­pei le maggiori forze sono divise sulla strategia macroeconomica europea e nazionale, in Italia invece c’è un perfetto idem sentire, in vista del prossi­mo Consiglio europeo del 27-28 giugno 2013. Non si di­mentichi che l’Italia è il terzo contribuente alle finanze co­munitarie. Daremo, pertanto, mandato al nostro presidente del Consiglio di rivendicare i di­ritti di un’azionista, seppure di minoranza, e pretendere, sen­za timidezza, che la nostra voce sia ascoltata e abbia il rispetto che merita.
Sappiamo quanto questo sia difficile. Ma non dobbiamo dimenticare che la politica este­ra, da che mondo è mondo, si calibra più sulla forza che non sulla «ragion pura». Caro presi­dente Letta, è certamente ne­cessario fare delle scelte, date le risorse scarse. Ma l’unica scelta che tiene insieme tutte le altre è quella dello sviluppo. E lo sviluppo si fa in Europa, si fa con la deflazione da parte della Germania, si fa con il cambia­mento della politica economi­ca. Fuori da questo si finisce so­lo, a livello dei singoli Paesi, con il cannibalismo economi­co, con il cannibalismo politi­co, con il cannibalismo sociale. E nuovamente il caos.