Ilaria Maria Sala, La Stampa 31/5/2013, 31 maggio 2013
I CINESI COMPRANO CIBO ALL’ESTERO PER FAR DIMENTICARE GLI SCANDALI
I consumatori cinesi hanno visto di tutto: cocomeri che letteralmente esplodono nei campi tanto sono pieni di pesticidi. Tofu con ingredienti irripetibili, carne di maiale fosforescente, e uova sintetiche, fatte mescolando polveri chimiche creando un’imitazione quasi perfetta – alla cottura, però, le uova finte diventano gommose.
La lista è infinita, ed ogni giorno porta una nuova inquietudine: acqua imbottigliata nella quale si agitano larve, per non parlare di quando, un pugno di settimane fa, Shanghai aveva maiali morti che galleggiavano nel fiume, gettati in acqua dagli allevatori che non sapevano cosa fare di animali malati. La carne e il latte sono i prodotti più rischiosi: ai maiali viene dato il Clembuterol, antiasmatico che ne rende le carni magre, ma che causa problemi cardiaci a chi li consuma. Polli gonfi di antibiotici, montone che in realtà è carne di topo, per non parlare del caso clamoroso del latte contaminato di melamina, che ne aumenta all’analisi il contenuto proteico, ma che si è rivelata fatale a diversi lattanti cinesi.
Il sospetto si accompagna ad ogni spesa, e a ogni pasto: oggi, molti ristoranti di «marmitta della Mongolia» o di fonduta alla Sichuanese (piatti che si cucinano al tavolo, in grandi pentole con un brodo speziato in ebollizione a cui si aggiungono fette di carne e verdure) portano ai clienti confezioni individuali di condimenti, e lasciano che ad aprirle e versarle siano i commensali stessi. Ma come assicurarsi che l’olio di scolo non sia finito nel wok, la padella tonda immancabile nelle cucine cinesi, o che lo zenzero non contenga livelli cancerogeni di pesticidi?
Il problema si intreccia a un sistema di controlli ancora troppo poco esteso ma già piagato da una corruzione capillare, e dal fatto che, nella Cina del miracolo economico, la scaltrezza si è fatta strada.
Il risultato sono milioni di consumatori che preferiscono affidarsi ai maggiori controlli internazionali, acquistando, quando possono permetterselo, prodotti importati, e che trovano che un hamburger di McDonald’s possa essere più sicuro e pulito che non un piccolo ristorante cinese.
Le aziende coinvolte spesso non sono rivelate al pubblico, e i media riportano la questione con infiniti non detti. In molti casi si tratta di operazioni piccole, a livello regionale o cittadino, che nella corsa alla produzione economica immettono nella catena alimentare prodotti scellerati.
Così, l’espansione all’estero è divenuta una soluzione di prestigio: lo ha fatto la Yashili, che ha acquistato per 210 milioni di dollari Usa un’azienda in Nuova Zelanda per produrre latte in polvere. Lo fa ora la Shuanghui con l’acquisto della Smithfield. Lo fa la Mengniu, già travolta dallo scandalo della melamina, ora in partnership con la Danone.
Ma visto che mangiare si deve, e che quello dell’abbondanza del cibo è uno dei piaceri della Cina delle riforme economiche, ogni pasto è accompagnato da un po’ di fatalismo, ma anche dal gusto ritrovato per una cucina ricca e variata. Magari, con ingredienti importati.