Paolo Mastrolilli, La Stampa 31/5/2013, 31 maggio 2013
LE MANI DI PECHINO SUL COLOSSO DEGLI HOT DOG
La Cina va alla conquista degli Stati Uniti con un hot dog, comprando per 4,7 miliardi di dollari la Smithfield Foods, primo produttore mondiale di carne di maiale. Oppure sarà vero il contrario, se gli americani riusciranno ad usare la fame di cibo sicuro che muove Pechino, per ottenere in cambio maggior accesso per le proprie aziende di altri settori nel mercato della Repubblica popolare.
L’offerta deve ancora essere approvata, ma non dovrebbe incontrare grandi ostacoli, perché non stiamo parlando di missili o droni. La Shuanghui International Holdings ha promesso di pagare 34 dollari per azione della Smithfield, valutando così la compagnia della Virginia 7,1 miliardi, debiti inclusi. La prima azienda nel 2012 ha registrato vendite per 6,4 miliardi di dollari, e la seconda per 13 miliardi. Larry Pope, ceo della compagnia americana, è felice, perché questa mossa a sorpresa lo libera dalla pressione dei suoi azionisti, che lo accusavano di aver fatto perdere valore alla Smithfield puntando sulla strategia verticale di controllare l’intero processo produttivo e la distribuzione delle carni. I sindacati sono contenti, perché l’investimento cinese salverà e forse aumenterà l’occupazione negli Usa. Pechino è soddisfatta, perché i suoi abitanti sono i maggiori consumatori di maiale al mondo, e la pancia piena previene ogni problema. Pope ha detto che l’obiettivo dell’acquisizione è «esportare più carne americana in Cina, non il contrario». Un chiarimento importante, visti gli scandali su igiene e sicurezza che da sempre tormentano il comparto alimentare nella Repubblica popolare. Pechino ha bisogno di aumentare il consumo di proteine nella popolazione, ma non riesce a produrre carni di qualità, come hanno dimostrato i maiali morti che galleggiavano a marzo nel fiume di Shanghai. Quindi ricorre alle risorse naturali e alla tecnologia americana. Secondo il dipartimento all’Agricoltura, l’anno scorso la Cina ha importato 61.000 tonnellate cubiche di carne dagli Usa, e il totale salirà a 175.000 tonnellate nel 2013. Tutti felici, dunque, perché non si tratta di risorse strategiche come petrolio o tecnologia militare, e quindi il commercio giova ad entrambi.
Qualche però, tuttavia, esiste, tenendo presente che il 7 giugno Obama incontrerà per la prima volta in California il nuovo presidente cinese Xi Jinping, determinato ad ottenere da questo «G2» un trattamento paritario da superpotenza. Insieme a Corea del Nord, spionaggio digitale, rivalità geopolitica e militare, sul tavolo ci sarà l’economia. La Repubblica popolare è impegnata in uno sbarco massiccio negli Usa: l’anno scorso le sue aziende hanno investito 11,57 miliardi in America, stabilendo il record assoluto con 49 acquisizioni. La più significativa è stata il settore aeronautico di Aig, ma la Dalian Wanda si è comprata per 2,6 miliardi anche la catena di cinema Amc. I cinesi hanno molti soldi da spendere e li mettono ovunque vedono profitti. Un’invasione che fa impallidire le preoccupazioni degli Anni 90, quando sembrava che i giapponesi volessero comprare gli Usa.
I problemi nascono quando si toccano i settori strategici, perché forse Washington può accettare di essere scavalcata da Pechino come prima economia mondiale, ma non di cedere la sua supremazia militare. L’altra questione delicata, poi, riguarda la reciprocità del trattamento. Finora le aziende americane hanno investito in Cina più di quanto quelle cinesi abbiano fatto negli Usa: 70 miliardi contro 26. Vorrebbero di più, ma si trovano spesso la strada sbarrata dalla burocrazia locale. Obama e Xi probabilmente non parleranno di maiali, a meno che non siano nel menù dei loro pranzi, ma il «Wall Street Journal» già preme sul presidente affinché pretenda un quid pro quo. In altre parole, dovrebbe prendere i cinesi per la gola: volete il nostro cibo e la nostra tecnologia alimentare? Bene, ma in cambio aprite le porte alle nostre aziende di altri settori.