Stefano Rodi, Sette 31/5/2013, 31 maggio 2013
È L’ITALIA IL PAESE PREFERITO DALLE REGINE DEI CIELI
Il leone è il re della foresta, le orche dominano nei mari e il cielo è il regno delle aquile. Gli animali che rappresentano il primo anello della catena alimentare, in terra, in acqua o per aria, fanno sorgere negli altri esseri viventi, uomini compresi, una certa ammirazione mista a un giustificato timore reverenziale. Mentre dei primi due dominatori, forse per fortuna, in Italia non c’è traccia, il nostro Paese si segnala per essere uno dei più frequentati dalle regine del cielo. Le aquile, in Italia, volano alto e bene dopo che, attorno agli Anni 70, si era addirittura temuta una loro scomparsa. Adesso si sa invece per certo che la loro popolazione, rispetto a 40 anni fa, è più che raddoppiata: sono circa 600 le coppie che vivono sulle nostre montagne, 400 nelle Alpi e 200 negli Appennini. Sono macchine volanti perfette: le femmine raggiungono un’apertura alare di 2 metri e quaranta, i maschi venti centimetri meno, con una vista dieci volte superiore a quella dell’uomo e un angolo visivo di 300 gradi. Sono capaci di salire nelle correnti ascensionali senza muovere una piuma, diventando puntini che si perdono a oltre 4mila metri di quota, oppure frecce che raggiungono i 300 km all’ora in picchiata.
Angelo D’Arrigo, unico uomo a essere stato capace di volare sopra l’Everest con un deltaplano, si allenava con uno di questi rapaci nei cieli della valle di Kumbu, per imparare a sfruttare le correnti ascensionali.
La Valsavaranche, in Valle d’Aosta, nel cuore del Gran Paradiso, è una gola stretta e lunga: circa 25 km per 2,5 di larghezza, con cime che arrivano a oltre 3mila metri. È uno dei posti del pianeta con la più alta concentrazione di aquile reali: qui abitano cinque coppie, oltre a una di gipeti. Laura Fasce e suo marito Paolo le conoscono per nome e le seguono, con e senza binocoli, da 42 anni. Non è un’impresa semplice e non può riuscire se non sorretta da un’enorme passione, visto che a volte si tratta di stare per ore nel gelo, in compagnia solo di un cannocchiale, sperando che le aquile decidano di aprire le ali. È grazie a questo lavoro meticoloso, e totalmente volontario, che ora si può tracciare un quadro demografico preciso della popolazione di questi rapaci. «Fino a quelle creste là», spiega Laura Fasce, «c’è il territorio della coppia di Chevrère, da lì inizia la zona dove vive la coppia di Molère». E via di seguito lungo la valle, perché le coppie di aquile reali vivono insieme tutta la vita, finché morte non le separa, nella stessa “casa”. Si tratta di “appartamenti” ben areati, che possono variare dai 40 ai 500 km quadrati, a seconda della densità di popolazione di aquile e della disponibilità di prede. Anche se non si tratta di monolocali soffocanti, le pareti, o meglio le creste divisorie, sono precise al millimetro e devono essere rispettate. I rapporti con i vicini sono delicati, all’insegna del rispetto reciproco, ma con poco spirito di tolleranza. Ognuno deve tenere le ali dalla sua parte. E anche i figli, maschi o femmine che siano, hanno circa sei mesi, massimo un anno di tempo per togliersi di torno. Se non lo fanno con le buone, papà e mamma glielo fanno capire a suon di artigliate: in natura, almeno quella delle aquile, non ci sono bamboccioni.
La gioventù è nomade. Quello dei giovani resta un mistero: nessuno sa dove e come passino la prima parte della loro vita, in attesa di entrare in una coppia fissa quando sostituiranno un maschio o una femmina deceduti. L’ipotesi più probabile è che siano nomadi, approfittando di zone non occupate stabilmente da coppie di aquile: si sa infatti che questi giovani si spostano anche per centinaia di chilometri nell’arco della prima parte di vita, prima di sistemare le piume in modo stabile da qualche parte.
Altro mistero mai chiarito è l’uso dei nidi. Ogni coppia nella sua area ne costruisce diversi: da due fino a 12-13. Li tengono in ordine, anche se quello che usano è uno solo, ma perché lo scelgano resta un enigma. All’interno dei territori delle aquile qualche attraversamento in quota di altri uccelli può essere tollerato, ma voli radenti sono invece sempre motivo di duelli aerei feroci. Chi si deve muovere con cautela quando passa nelle “case” delle aquile sono i gipeti, enormi e meravigliosi avvoltoi, con colori delle piume che sembrano scelti da Gauguin. Sono loro i secondi uccelli nel regno dei cieli. Sono più grossi delle aquile: possono arrivare ad avere un’apertura alare di 2 metri e 70, ma non sono nati per uccidere, come le regine dell’aria: il gipeto mangia solo carcasse, e non ha quindi artigli da killer come quelli delle aquile. È per questo che i duelli aerei finiscono sempre nello stesso modo. «Una volta», ricorda Laura Fasce, «ho visto un gipeto precipitare tra gli alberi del bosco, dopo un duello in volo con un’aquila, come un aereo colpito da un missile».
Le aquile, però, soprattutto se c’è abbondanza di selvaggina, a volte tollerano il passaggio dei gipeti. La natura non ha morale, ma è spietata solo quando serve. Inutile giudicare, meglio osservare e non finire di stupirsi.
Come accade a Michele Mendi e Mario Pedrelli, della Lipu di Parma, che seguono le cinque coppie di aquile del Parco Nazionale dell’Appennino tosco-emiliano. «Stavo osservando una coppia che aveva nidificato per la prima volta a poche centinaia di metri dal paesino di Riana, in provincia di Parma, di fronte a Casarola. Una volta la madre arrivò al nido e se ne andò subito dopo aver depositato sul bordo un povero scoiattolo, ormai morto, che aveva appena catturato volando radente sopra le cime degli alberi. L’aquilotto, che aveva dimensioni ormai ragguardevoli, per la gran fame e muovendosi goffamente si avvicinò con troppa veemenza al suo pasto e lo fece precipitare nel vuoto. Ricordo la “faccia” di quel piccolo, protesa per lunghi minuti fuori dal nido, con la sua vista d’aquila che inquadrava il cibo perduto centinaia di metri sotto».
A saper guardare in alto, anche senza cannocchiale, se ne vedono di tutti i colori. Come “il volo a festoni” delle aquile. Lo fanno prima dell’accoppiamento, oppure per avvisare gli intrusi che tira una brutta aria. È una delle rare volte in cui le si vede sbattere le ali: salgono quasi in verticale e poi si lasciano cadere con le ali chiuse quasi del tutto, a forma di cuore. Poi le riaprono e, con l’abbrivio della velocità raggiunta durante la picchiata, risalgono in cielo, disegnando delle onde con cui attraversano la loro valle. A volte quest’acrobazia aerea la eseguono anche semplicemente quando maschio e femmina si vedono nel loro territorio, magari dai versanti opposti della valle. Deve essere il loro modo per salutarsi, per farsi festa. Questo volo si chiama anche danza del cielo.