Diego Gabutti, Sette 31/5/2013, 31 maggio 2013
LENI & MARLENE, UNITE DAL CINEMA DIVISE DAL FÜHRER – È a Marlene Dietrich che il regista Josef von Sternberg darà la parte
LENI & MARLENE, UNITE DAL CINEMA DIVISE DAL FÜHRER – È a Marlene Dietrich che il regista Josef von Sternberg darà la parte. Ma anche Leni Riefenstahl, diva dei film alpinistici, futura autrice di capolavori del cinema di propaganda hitleriana come i documentari Olympia e Il trionfo della volontà, vorrebbe farsi scritturare per la parte di Lola Lola – la cantante di cabaret che trasforma un dignitoso professore di liceo in un patetico e miserabile clown – nel cast d’un altro capolavoro del cinema, L’angelo azzurro. Tratto da un romanzo di Heinrich Mann, fratello di Thomas, il grande film di Josef von Sternberg (ebreo austriaco e regista hollywoodiano in prestito all’Ufa, gli studios di Berlino) si rivelerà, col tempo, una sorta di compendio generale delle culture della Repubblica di Weimar: cabaret, melodramma, permissivismo e autoritarismo, alcol a fiumi, «le belle gambe di Marlene» (come scriverà con tipica condiscendenza Theodor W. Adorno, Scuola di Francoforte purissima) e sull’orizzonte, dietro l’angolo in cui la crisi economica incrocia la Krisis filosofica, un’altra guerra mondiale, Hitler, le SS, Stalingrado, l’Olocausto. Implicite, tra i tavolini e le panche dell’Angelo azzurro, si muovono anche le ombre della Lulu di Franz Wedekind, della Montagna incantata di Thomas Mann, del Tramonto dell’Occidente d’Oswald Spengler, dei corpi franchi, della repubblica bavarese dei consigli, del putsch hitleriano di Monaco, dei romanzi pacifisti d’Eric Maria Remarque (futuro amante impotente di Marlene). È il 1930 e Marlene, una volta ottenuta la parte, si metterà seduta su una botte e accavallerà le gambe presto leggendarie cantando Ich bin die fesche Lola (sono la focosa Lola) e Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt (da capo a piedi sono orientata all’amore). E via con la leggenda. Hollywood, amanti d’entrambi i sessi, film memorabili, altri meno, la liaison con Jean Gabin, quella con Gary Cooper, un marito soltanto di facciata, una figlia che la disapproverà anche da morta, «la sigaretta in bocca, gli abiti di foggia maschile, i capelli corti (il famoso Bubikopf)» e infine un posto di prima fila nel Pantheon delle icone pop del XX secolo accanto a Fred Astaire, Martin Luther King, Albert Einstein, Topolino, Jimi Hendrix. Anche Leni Riefenstahl, alla fine, forse non in prima e neppure in seconda ma in terza o in quarta fila, approderà tra le icone pop del secolo breve, ma più al modo di Lee Harvey Oswald e d’Adolf Eichmann che in quello di Joan Baez e della Cenerentola di Walt Disney. Nazista, forse anche amante di Hitler, benché trascorra gli ultimi sessant’anni della sua vita a negarlo, Leni entrerà nel mito del grande cinema (come i suoi dirimpettai ideologici, i registi bolscevichi) grazie alla glaciale monumentalità dei suoi film di propaganda, tuttora molto ammirati, che esaltano la bellezza e l’agilità dei corpi (lei gli atleti olimpionici e la Hitlerjugend, i registi russi gli operai e il Komsomol) e le sconvolgenti scenografie wagneriane dei raduni nazionalsocialisti di massa. Marlene, che abbandona “la patria”, come le sarà rimproverato da molti connazionali ancora trent’anni più tardi, è una dei buoni, antinazista «per decenza»; Leni, che in Germania resta fino alla fine, e che morirà a Berlino nel 2003, a 101 anni, dodici anni dopo Marlene, avrà un posto nella storia del cinema, ma nella colonna dei cattivi. È solo dopo gli Anni Settanta, del resto, che otterrà i meritati riconoscimenti critici; prima era detestata, e a buon titolo. Autore d’un celebre saggio su Cinema Tedesco: dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, sociologo e «critico della cultura», Sigfried Kracauer non le perdonava neanche i film di montagna, le fughe di nuvole, le picozze, le scalate. Scrisse con scarsa ironia che «immaturità e alpinismo erano tutt’uno» e che «l’idolatria dei ghiacciai e delle vette era sintomatica d’un antirazionalismo dal quale i nazisti potevano ricavare larghi vantaggi». Aggettivi sbagliati. Nella sua autobiografia di quasi 700 pagine (Stretta nel tempo. Storia della mia vita, Bompiani 2000) Leni definisce Hitler «geniale e pericoloso». Ma l’aggettivo «pericoloso» ha l’aria di un’aggiunta tarda (anche la sua denuncia della «dottrina razziale» nazista è un’aggiunta tarda, visto che l’antisemitismo diventò per lei un problema solo dopo la caduta di Berlino). «Geniale», poi, dopo Auschwitz (oltre che dopo la caduta di Berlino) non ha l’aria dell’aggettivo più adatto a definire Hitler. Dirà inoltre che «il Führer», una sera, passato a trovarla per fare due chiacchiere, mostrò di desiderarla «come donna» (ma subito aggiunge che tra loro non ci fu mai nulla). Anche Marlene, del resto, scrive il regista e storico del cinema Peter Bogdanovich nel suo Chi c’è in quel film? Ritratti e conversazioni con le stelle di Hollywood, Fandango 2008, «diceva agli amici di sentirsi in colpa per lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Hitler voleva andare a letto con lei, e lei l’aveva respinto. Così Marlene diceva spesso che, se ci fosse andata a letto, forse sarebbe riuscita a cambiare il suo modo di vedere la vita, e la storia del mondo sarebbe stata diversa». Così è la storia: flessibile, è il caso di dirlo, come l’elastico delle mutande. Dunque poteva anche andare diversamente, scrive il germanista Gian Enrico Rusconi in Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica, una bella monografia dedicata alle due “donne simbolo” del Novecento tedesco (e non soltanto tedesco). Per un momento, infatti, Marlene è tentata di restare in Germania, mentre è Leni, sempre per un momento, a pensare d’andare a Hollywood. È il 1932, quando Marlene ha appena girato Marocco con von Sternberg in California e Leni ha presentato il suo primo film da regista, Das blaue Licht (la bella maledetta), nei festival europei. Vado? Resto? Entrambe, quando Hitler non è ancora al potere e sembra che la festa weimeriana possa durare per sempre, pensano a cos’è meglio per la carriera; le considerazioni ideologiche e politiche verranno in seguito, a posteriori. In questo universo non è capitato, in un altro forse sì, ma «la semplice ipotesi che le due artiste», scrive Rusconi, «avrebbero potuto invertire i loro destini scambiando i loro soggiorni al di qua e al di là dell’Atlantico la dice lunga sull’incertezza e la confusione non solo delle loro vite professionali e private, ma della contingenza del momento storico». Benché anche Leni, al pari di Marlene, fosse una “donna nuova”, come si diceva all’epoca, e il suo stile di vita corrispondesse alla descrizione che ne davano il cinema, le favole psicoanalitiche, le riviste patinate, la musica d’avanguardia e il “teatro dialettico” brechtiano, difficilmente Leni avrebbe potuto impersonare gli stessi miti incarnati da Marlene: l’impassibilità, la disinvoltura sessuale, il glamour ostentato, l’amarezza, il distacco, il disprezzo per le convenzioni. «Dietrich in tedesco significa grimaldello», scrive la stessa Marlene in un aforisma del suo Dizionario di buone maniere e cattivi pensieri (Castelvecchi 2013, pp. 192, 14,50 euro). «Non è una chiave magica ma un oggetto reale e per fabbricarlo occorre grande abilità». Lei (e in parte anche il suo creatore artistico, von Sternberg, che le cucì addosso questa immagine, gli zigomi alti, gli occhi sgranati) aveva la particolare abilità d’essere Marlene, sempre eguale, e inimitabile. Il ricordo vivo della madre. «Che interpreti una dama o una prostituta, una conquistatrice o una vittima», scrive Franz Hessel (lo scrittore che ha ispirato a Henry-Pierre Roché il Jules di Jules e Jim) nel saggio Marlene Dietrich, Elliot 2013, pp. 56, 7,50 euro, «Marlene Dietrich incarna sempre un sogno universale. È come l’eroina d’uno dei suoi film: la donna cui si anela, e questo “si” non indica soltanto “alcuni” ma “ciascuno”, il popolo, il mondo, il tempo. Quest’artista ricorda l’effetto esercitato dalla bambola fatata d’una favola persiana su carpentieri, sarti, pittori, bramini e alcuni artigiani che a essa hanno lavorato: litigano per averla, e quando si recano dal Kadi, questi ha la pretesa di ritrovare in essa la sua sposa perduta». Nessuno, tanto meno Leni Riefenstahl, avrebbe potuto prendere il posto di Marlene nell’immaginario pop degli Anni Venti e Trenta, l’epoca dei belli e dannati, gli anni del Grande Gatsby e dei romanzi berlinesi di Christopher Isherwood (per esempio Addio a Berlino, riedito di recente da Adelphi, pp. 256, 18 euro). C’è appena stata una guerra, il capitalismo è allo sbando e il jazz è «la rivoluzione, l’espressionismo, il bolscevismo della sala da ballo».